La poetessa non è una donna che se ne sta con le mani in mano. Lavora. Nicoletta Bidoia in poesia scrive versi, in pratica, a libro chiuso, costruisce teatrini di carta. In entrambi questi mondi, s’aggirano figure leggère: parenti, sconosciuti tratteggiati sullo fondo della storia, ma troviamo anche figure celebri tratte dall’opera lirica, dalla danza, dalla letteratura: ciò che accomuna poesia e lavoro qui è la carta. Come foglio per la scrittura e come cosa materiale da tagliare, incollare, piegare in verticale: in ogni caso, sono pagine o architetture da cui emergono mondi fragili, sempre sul punto di crollare. Sono mondi semplici, mondi addormentati nella memoria popolare, microcosmi che sognano in se stessi la ferma coesione dei coralli. Come i coralli è il titolo della recente raccolta di poesie di Nicoletta Bidoia, per La Vita Felice (pp.78. euro 13). Nel libro, la prima sezione è un familiare attraversamento del secolo, il Novecento. Sullo sfondo, c’è la Storia, e il binario su cui corre la scrittura ne riporta il sonoro. Dal fragore della guerra al rumore del turno di lavoro, dal turno di lavoro all’opera ascoltata alla radio: «Tornare a casa, tornare ai cari nomi / al tornio in fabbrica da Monti e alle lotte / e ascoltare in Teatro Bastianini, la Tebaldi (…) e arrivare fin qui, ai 92, nel ’13, lui / socialista di Nenni e Pertini a imprecare contro il Cavaliere (…)».
Qui qualcuno canta. E pare lo sfondo di un’opera moderna, quel canticchiare a bassa voce lavorando è la ricostruzione d’una scena popolare: in casa l’opera, con l’orecchio alla radio, fuori Bandiera Rossa, saettando in bici. Si intravedono altri tempi, altri luoghi e se in casa echeggia a quell’amor ch’è palpito fuori c’è Guido che da Treviso corre alla Fenice su due ruote. «La lirica in famiglia era così: loggioni come il pane quotidiano». Nella seconda sezione del libro, intitolata Silenzi, il tempo è quello in atto e si attua un passaggio: le poesie perdono il titolo. È la descrizione del momento in cui la poetessa si mette al lavoro e racconta «le ore beate del ritaglio (…)».
Nella terza sezione, Parlami, entriamo più direttamente nei teatrini di carta. «Nel collage ho messo insieme / Caproni che cammina con Sereni / (e solo perché di Penna non ho figure intere)…. Poi la Carpi che viva scalpita nel bordo/(…)». «Un viavai di morti che s’intrecciano ai vivi». Ed è l’anello più sorprendente di questa poetica: chiuso il libro, sorge il teatrino e lì esseri e cose rinascono un’altra volta. Come da un loggione, sul sonoro s’innesta il visibile: sulla carta ormai verticale, figurine si muovono, parlano, s’asciugano gli occhi, svengono. Escono piangendo e rientrano ridendo, come se niente fosse.
Nicoletta Bidoia ritaglia, piega, attacca, alle mani affida un compito che appare benedetto e chiaro a tutti : sempre vanno insieme scrivere e fare. Un libro, un collage. Un ricamo, un cappello, un vestito. Poesia non è altro che questo poiein, questo fare che ci tiene finalmente a testa china. Come antiche figure, sapienti e oscure, come statue semoventi in un rifugio. Che pace quell’essere lì, quel tornare agli avi, quel ritrovare una parente, un’antenata: «stava china giorni all’uncinetto/su centinaia di presine/così ti ricordi di me e non ti scotti».
Siamo qui, non c’è dubbio. E da qui a là il passo è breve. Là, nella carta dipinta una tenda, una piega, un bottone. Una Tosca, una Traviata – la Callas! – là donne e uomini rientrano cantando… E qui, nel teatro interiore, parallelo, un altro sipario s’è alzato: compare una stanza, una radio e seduto lì accanto un essere umano canticchia, tamburella con le dita: A quell’amor ch’è palpito
In fondo al libro, alcune note dell’autrice rivelano, come in un casting, nomi più o meno noti: Nureyev, Scarlatti, Ciccolini, Flaiano… nomi, date, cose precise che realtà poeticamente acuiscono il mistero. Siamo nella realtà? Questo mondo non è virtuale, è di carta. È fuggevole, eppure tende al corallo, ciò che è più fragile si rinsalderà.
«Il corallo dopotutto è come noi». «Pare uno/ ma sono tanti i tremori che lo fanno».