«Immagina tutto come relazione. Immagina il vuoto che si rovescia, e l’uno nell’altro». È da tempo che la scrittrice e poeta Laura Pugno ci invita a ripensare le categorie di umano-selvaggio, vuoto-pieno, solitudine-relazione. Lo ha fatto con i romanzi Sirene e La metà di bosco (solo per citare il primo e l’ultimo, entrambi editi da Marsilio), lo ha fatto con le sue raccolte poetiche e con il recente, e già memorabile, saggio In territorio selvaggio (Nottetempo, 2018), da cui è tratto l’incipit di questo articolo. Torna a farlo con un libro di poesie che, fin dal titolo, dichiara il suo oggetto e, insieme, il suo punto di vista: Noi (Amos Edizioni, pp. 75, euro 12). «Noi è una serie di poesie d’amore, tra due persone. Intorno a loro, una comunità di vivi e morti, a cui si arriva per mezzo della poesia», recita una nota al testo.

La scena di apertura del libro conferma, da subito, l’andamento duale e collettivo dei versi: due corpi, nel buio di una stanza, attendono l’alba. Sono corpi con una storia precisa, personale, eppure contengono e alludono ai corpi di tutti coloro che, dall’inizio del mondo, hanno aspettato, aspettano, il giorno.
«I corpi fanno luce, sono piante/ o insetti, sono/ alba – vedi/ che appare il giorno/ portato da ogni corpo/ con sé»: nei versi di Laura Pugno ogni corpo fa giorno, ogni corpo attraversa e conduce la luce, ogni corpo collabora al «noi» e anche nella solitudine lo sottintende.

NON ESISTE, per la poeta, qualcuno che non sia in relazione con un altro, con l’altro: «la luce si lega alla luce», ma anche l’ombra è una «corda-ombra». Le cose e gli esseri si chiamano fra loro, s’influenzano e modificano a vicenda, come accade in ogni ecosistema: il problema è che abbiamo smesso di pensarci, che non sappiamo più di farne parte. «Quando tutto si fa bosco,/ ma tutto/ è già bosco – // non senti,/ che c’è qualcuno dietro di te,/ si avvicina,/ non senti?»: sembra, in questi versi di Laura Pugno, di rintracciare il riflesso dei Claros del bosque descritti dalla filosofa andalusa María Zambrano, quei centri di chiarità assoluta, improvvisa, in cui il mondo ci si rivela, palpitante di connessioni, di presenze vicine.
Per Pugno, come per Zambrano, il chiaro del bosco non va cercato, accade se noi riusciamo a vederlo accadere. «Tutto è già bosco», tutto è già «relazione»: ramificazione profonda, continua, legame diffuso e pulsante tra corpi, cose, organico e inorganico.

IL PUNTO È IMPARARE ad esercitare lo sguardo, riuscire a vederla, la «relazione», come una rete che si regge in tensione tanto sui propri fili, quanto sui propri buchi. Il vuoto tra un filo e l’altro consente alla rete di esistere: la rete tiene perché è forata. «Lascia libera/ ogni cosa a cui ritornerai/ nel diventare, quando ti bruceranno,// e credilo, anche se non lo credi/ è questo, che consente la luce»: è nell’atto di lasciare libero da un legame di possesso chi amiamo e ciò che ci circonda che l’occhio mette a fuoco un altro tipo di relazione fra «noi» e il mondo. Un’interdipendenza, un «entanglement», una cucitura che tiene, e a cui anche il vuoto del nostro corpo, una volta assente, continuerà a concorrere. Vuoto che lascia spazio, perché passi la luce.
È una luce diversa quella che emana dall’ultimo libro di poesie di Sara Ventroni, Le relazioni (Nino Aragno, pp. 120, euro 15). Non un’alba diffusa, ma un susseguirsi di lampi che attraversa e impressiona la retina: sono i flash di una relazione interrotta, le scariche intermittenti di un’assenza.

«DI TE MI RESTANO solo fosfeni:/ la luce meridiana che ci abbaglia/ a spiaggia, quando il sole ci eguaglia»: così recita la prima poesia del libro, che Ventroni dedica ad Elio Pagliarani, il grande poeta sperimentale, di cui fu assistente per anni.
«Se solo tu credessi nell’aldilà, sarebbe tutto più facile./ Per alcuni è essenziale immaginare un posto dal quale tornare/ a contraddire i vivi»: sarebbe più facile lasciare andare, se l’altro – mentre va via – credesse di poter tornare. Alla sua convinzione ci potremmo appoggiare, come a un patto pietoso, una bugia fra due che non si vogliono lasciare. Eppure, anche quando nulla si oppone alla verità dell’assenza, quando l’evidenza dice che la relazione è finita, che «il dialogo è interrotto» e «si prosegue nel monologo», la consapevolezza che ne deriva non è da poco: «spendersi solo per le cose che passano le cose che restano ci penseranno loro». Si tratta di vivere sentendo sotto la pelle il ritmo continuo della «trasformazione incessante», la forza della materia e insieme della sua dissolvenza «che tira come metallo al magnete». Significa sapere che «il paesaggio vegetale ricopre/ il passaggio umano./ Le foglie divorano la teoria»: sapere, in breve, che «le cose che passano» siamo noi.
«Dura poco conviene starci dentro/ il tempo abita i corpi soltanto»: non è un semplice avvertimento, quello di Sara Ventroni, un promemoria sulla nostra finitudine, con varie ed eventuali ricadute filosofiche, ma una presa di posizione precisa: la scelta di vivere «dentro la frattura».
È una scelta che Ventroni persegue da anni, e in cui ci indica, senza intenzione, senza didascalismi, una possibilità: ce la indica semplicemente perché ne scrive, e ne scrive solo perché la vive.

SI SCEGLIE DI ABITARE la «frattura» per occuparsi delle «relazioni»? Proprio così. Si tratta, ancora una volta, di imparare ad esercitare lo sguardo. È dopo aver fissato le crepe, che l’occhio diviene più capace di leggere le connessioni fra le cose. Questo perché la percezione del loro limite le illumina, non le spegne.
«Adesso che si rompono le cose esistono» – Sara Ventroni lo aveva scritto in apertura de La sommersione, il suo libro precedente (2016) – e continua a sostenerlo ne Le relazioni: il punto di rottura, la faglia, la ferita espandono la percezione della cosa. L’intero è una falsa pista, è quel tutto-uguale-a-se-stesso che non consente di distinguere i lineamenti, di visualizzare l’insieme dei tratti. L’intero non è l’insieme, al contrario, lo preclude, perché l’insieme è fatto di discontinuità e di fratture: l’occhio capace di avere la visione d’insieme è un occhio che viaggia di rottura in rottura e, solo in virtù di questo, di connessione in connessione.
Quello di Sara Ventroni è uno sguardo contemporaneo e insieme antichissimo, somiglia a quello del materialista, visionario, poeta latino Lucrezio che, per spiegare la creazione di tutte le cose in natura, ricorreva al clinamen: una deviazione, un errore di traiettoria degli atomi grazie al quale, invece di precipitare dritti e integri verso il basso, dentro un «vuoto profondo» e improduttivo, essi si scontrano, collidono, e così creano la realtà.

SONO L’ERRORE e l’urto a consentire l’incontro e la combinazione: «adesso che si rompono le cose esistono./ L’ordine sconosciuto danza dentro la frattura», scrive Ventroni. C’è un «ordine» dentro la frattura, che non è armonia, e non è nemmeno destino, ma il modo in cui le cose entrano in relazione. Per riuscire a vederlo bisogna saper seguire con gli occhi le deviazioni, non distogliere lo sguardo dalle rotture, non chiedere rassicurazioni all’intero.
Si tratta di non proteggersi, mantenendosi nella zona degli urti, che quindi è la zona della vita – e della morte, che della vita fa parte. È difficile, è spaventoso, è l’unico modo per vedere l’insieme. Ventroni lo ha visto più volte, più volte ce ne ha dato testimonianza. Come in questi versi, ancora tratti da La sommersione, versi che addolorano e insieme consolano, e che faremmo bene a imparare a memoria: «Il tempo in cui si sta sulla terra/ prende e perde innumerevoli forme./ Anche la forma della fine/ è una relazione».