Sarebbe facile affermare che Patrick Modiano è l’autore di un unico romanzo, declinato in maniere diverse ma non troppo dissimili, nel corso del tempo: nelle sue opere, tutte pubblicate da Gallimard, fino al recente L’herbe des nuits (2012, in uscita da Einaudi), si tratta sempre di assenze, sparizioni, situazioni incompiute, enigmi non risolti e domande senza risposta. Spesso le vicende narrate prendono avvio dalla stessa vita dell’autore, dai traumi di un’adolescenza irrequieta e trascurata, che sembra rimandare al Truffaut dei 400 colpi.
Ciò che salva la narrativa di Modiano dalla monotonia delle tematiche ricorrenti, rendendola, anzi, unica nel suo genere, è la capacità di fare di ogni storia, prima di tutto, una storia di sguardi. Scrittura di luce si potrebbe definire, la sua. Tanto nei romanzi quanto nelle «autofinzioni» – Livret de famille (1977) e Un pedigree (2005, tradotto da Einaudi nel 2006) tenta di recuperare il passato attraverso tracce visive, spesso nella constatazione delle modificazioni, delle assenze o sparizioni intervenute nel corso del tempo, e dunque nella consapevolezza dell’impossibilità di accedere, da ultimo, al tempo perduto.
La vertigine del tempo trascorso si traduce così in frammenti di memoria personale o collettiva e repertori di tracce visuali tenuti insieme dall’immaginazione. Si pensi a quello che è il suo lavoro più famoso, il romanzo-inchiesta Dora Bruder (1997, tradotto da Guanda nel 2004), in cui si suppone che di tante persone deportate nei lager, o morte durante l’Occupazione nazista di Parigi, sia rimasta una luminescenza fantasmatica, un’aura che lo scrittore coglie in un film di grande successo nel 1941, che ora gli appare come «impregnato dagli sguardi degli spettatori del periodo dell’Occupazione […]sguardi (che) per una sorta di processo chimico, avevano modificato la sostanza stessa della pellicola, la luce, la voce degli attori».

Sono gli sguardi dei personaggi, dell’autore e degli stessi lettori a modificare la sostanza di ogni suo lavoro, rendendolo unico: per esempio, lo sguardo del fotografo protagonista di Chien de printemps (1993), scomparso senza lasciare traccia, portando con sé tutte le sue fotografie, uno sguardo che viene recuperato solo attraverso le parole di altri, ricordi di luci che si stagliano nell’ombra, a suggerire come la memoria non possa colmare il vuoto lasciato dalla sparizione dei soggetti né tanto meno interpretare le figure di un passato ormai perduto; oppure, in Quartier perdu (1984), è lo sguardo del protagonista stupito di fronte all’apparizione notturna – luminosa nel buio – di un personaggio ormai defunto, di cui rimangono solo alcuni ritratti scattati con una Instamatic, sbiadite ombre di un passato indecifrabile.

In Domeniche d’agosto (1986, tradotto da Feltrinelli nell’87), l’immaginario dello scrittore si rifiuta al colore, proponendo paesaggi simili a macchie scure contro la luce del giorno: il bianco e nero fotografico si trasferisce alla visione complessiva della realtà per il protagonista, attraverso strisce di sole che s’insinuano nella sua stanza oscura, e «lampadine elettriche la cui luce filtrava dalle persiane proiettando sui muri, nell’oscurità, dei raggi ancora più chiari di quelli del sole», fino a spegnere ogni colore, a suggerire l’immagine di un mondo «tutto solo in bianco e nero». Un esile raggio di luce lega passato e futuro. Il presente della narrazione (che altro non è se non il futuro della visione) è in ombra, a suggerire come il passato resti inaccessibile, i suoi contorni irrimediabilmente sfumati. Simile a un abile fotografo, Modiano sa tradurre i diversi gradi di esposizione degli oggetti alla luce, e di conseguenza la loro visibilità anche interiore. In questo senso, i finali aperti dei suoi romanzi appaiono come dissolvenze fotografiche, tentativi di «riuscire a creare il silenzio con le parole».