È così abusato il luogo comune dei «cattivi maestri» che torna utile anche quando i protagonisti non abbiano il pedigree intellettuale per cui l’etichetta fu coniata, né abbiano intenzione di insegnare alcunché a nessuno: vale sempre a impedire la presa di parola di chi abbia alle spalle una condanna, tanto più se il reato era motivato politicamente.

Cattivi maestri, quindi, anche Franco Bonisoli e Adriana Faranda, invitati insieme a Manlio Milani, Agnese Moro e Sabina Rossa – parenti di vittime di alcuni tra i più efferati delitti politici degli anni Settanta e Ottanta – a testimoniare la loro esperienza nella iniziativa promossa da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato. Chi vuole può leggerla nel Libro dell’incontro (Il Saggiatore).

Riemerge così una ferita mai sanata nella storia italiana recente e porta con sé almeno altre due questioni: il ruolo della formazione nell’autonomia della magistratura e quello delle parti offese nel giudizio, nell’esecuzione penale e nella vita libera di chi abbia pagato il proprio debito nei confronti della società.

Lo scandalo suscitato dalla proposta formativa offerta dalla Scuola della magistratura ci ricorda quanto sia ancora viva quella vicenda storico-politica nell’Italia di oggi e dunque dà ragione ai promotori dell’incontro tra autori di reato e familiari delle vittime di quegli anni.

D’altro canto, la stessa dedizione degli uni e degli altri a quel faticoso percorso di discussione e di rielaborazione dei loro vissuti non si può altrimenti motivare se non attraverso un bisogno di giustizia e di comprensione che migliaia di condanne inflitte ed eseguite in anni passati non sono riuscite a soddisfare.

Forse quella storia resterà come un buco nero nella memoria nazionale e un castigo incessante nei protagonisti e nei loro prossimi congiunti, ma non sarebbe male se vi fosse nella società civile così come nella stessa magistratura una maggiore consapevolezza dei limiti della giurisdizione penale nella composizione dei conflitti e nella riparazione delle offese, siano esse pubbliche, private o le due cose insieme.

Nella soluzione del caso un peso non irrilevante l’ha avuto il Csm e il suo ufficio di presidenza.

Come sul Corriere della sera del 12 febbraio scorso ha spiegato Valerio Onida, che fino a qualche settimana fa è stato presidente della Scuola della magistratura, non da oggi corre un conflitto latente sull’autonomia della Scuola nella programmazione della formazione e dell’aggiornamento dei magistrati.

Certo è che se il maggior ruolo rivendicato dal Csm si dovesse risolvere in una occhiuta verifica di compatibilità politica della offerta formativa della Scuola, ne verrebbero a perdere tanto la Scuola quanto la magistratura, inevitabilmente indirizzate verso quella «formazione solo tecnico-giuridica, o solo autoreferenziale, “di categoria”».

Infine, anche in questa circostanza – nonostante il ruolo essenziale svolto nel percorso dell’Incontro dalle parti offese (tranquillamente ignorato dai loro presunti difensori) – il paradigma vittimario ha giocato un ruolo censorio nei confronti di alcune persone e di una domanda di conoscenza che pure interessa la collettività.

L’innocenza della vittima viene contrapposta all’autore del reato in una sorta di giudizio permanente, ossificando l’una e l’altro in un passato che non passa. In questo modo, se da una parte qualsiasi condanna diventa una condanna a vita, una sorta di capitis deminutio che si risolve solo con la morte del reo, non bisognerebbe sottovalutare gli effetti che quella ossificazione ha sulle parti offese e sulla collettività nel suo insieme: vittime che restano per sempre vittime e comunità interdette da un libero confronto sulla propria storia.

Un gioco a somma negativa, in cui tutti perdono qualcosa.