«Nella vicenda aquilana come altrove emerge una realtà malcelata in cui certi scienziati (…), forti dell’imprimatur di una razionalità percepita dalle masse come superiore, legittimano scelte amministrative che si traducono in inceneritori, ponti sugli stretti, tunnel ferroviari, centrali nucleari, depositi di gas, livelli nocivi di emissioni tossiche, politiche energetiche, scelte climatico-ecologiche e via dicendo. In questo senso, allorché il mito ingenuo dell’oggettività della scienza si traspone nell’oggettivazione politica di operazioni socio-economiche, il rassicurazionismo – la capacità di anestetizzare la popolazione con diagnosi tanto confortanti quanto fittizie – si rivela troppo spesso come funzione reale degli apparati della scienza ufficiale, come paradigma biopolitico emergente».

È un passaggio apparentemente secondario del saggio edito da Derive Approdi, «Parola di scienza», con cui l’antropologo culturale dell’università de L’Aquila Antonello Ciccozzi pubblica il suo lavoro di consultente-chiave incaricato dalla Procura nel processo a carico dei componenti della Commissione Grandi rischi che si riunirono nel capoluogo abruzzese sei giorni prima del terremoto di quattro anni fa. I sette imputati – tre scienziati, un ingegnere e tre dirigenti della Protezione civile – riconosciuti colpevoli di aver rassicurato gli aquilani sulla possibilità di una scossa devastante e di aver così contribuito colpevolmente alla morte di alcuni di loro, sono stati condannati in primo grado dal giudice aquilano Marco Billi a sei anni di reclusione.
Dalla sua analisi antropologica emerge la differenza fondamentale tra «mancato allarme» e «rassicurazione disastrosa» che è alla base della condanna. Stupisce però che anche lei non contempli alcuna differenziazione tra il ruolo degli scienziati e quello dei membri della Protezione civile. Perché?
Il tema è interessante perché pone la differenza tra responsabilità collettiva e individuale. Ma al di là delle singole competenze quelle persone facevano parte di un’istituzione a cui è stato conferito il titolo di massime autorità in materia di rischio sismico. A partire dal decreto di istituzione della commissione stessa che diluisce la specificità dei singoli membri all’interno di una competenza comune, presunta o reale che sia. E in base a quella competenza hanno agito e di quelle azioni sono responsabili. Certo, qui il problema non è la scienza ma la negligenza. S’è fatta confusione tra competenze e ruoli, ma soprattutto c’è stata una confusione fin dall’inizio tra la valutazione del rischio sismico e la comunicazione dello stesso.
Non le sembra che questa storia della Commissione grandi rischi ci parli di una crisi più generale della comunicazione che si è consumata all’Aquila, complici i media, nel periodo pre e post terremoto, con i riflettori puntati su Berlusconi che ridisegnava una realtà fittizia?
Certo: una crisi della percezione dove la comunicazione mediatica sussume qualsiasi altro canale percettivo. In fondo è il discorso che faceva McLuhan: il medium è il messaggio. In questa vicenda, come in tutto il dopo terremoto, i modelli di realtà raccontati dai mezzi di comunicazione diventano modelli che producono realtà. Nella consulenza ho fatto riferimento a René Magritte secondo cui la condizione dell’uomo è quella di vivere dentro rappresentazioni di realtà che scambia per realtà. Però nel caso della Grandi Rischi i media non hanno fatto altro che trasmettere una definizione di realtà data da quegli esperti.
Per secoli gli aquilani hanno avuto una propria cultura del terremoto. Perché l’hanno dimenticata così facilmente?
Perché la scienza, come spiegava Serge Moscovici, per noi occidentali è l’unica forma di sapere a godere, a livello di senso comune, di un carattere di indiscutibilità.
Ma non è per questo che la Protezione civile è chiamata al ruolo di mediazione?
Con una procedura corretta la Protezione civile avrebbe dovuto capire la differenza tra allertare (avvertire che c’è un rischio) e allarmare (prevedere, cosa impossibile, che ci sarebbe stato un terremoto). Nulla di tutto ciò: invece dal 15 dicembre 2008 c’è stata una sequenza di rassicurazioni basato sul teorema che nello sciame sismico si scaricava energia. La riunione della commissione è stato un atto cerimoniale che ha ratificato una versione della realtà già preconfezionata da mesi. Una sorta di rito propiziatorio.
Come s’è riverberata, questa sentenza, nel senso comune aquilano?
Il terremoto produce un mutamento della cultura antropologica, scatenando uno tsunami di termini nuovi che rifondano la cultura del luogo. La condanna ha acclimatato l’idea che c’è stato un inganno istituzionale. Che differenza c’è tra l’essere rassicurati rispetto a un terremoto che poi è arrivato con l’essere rassicurati rispetto a una ricostruzione promessa che non arriva mai?
Mutamenti conseguenti anche dal punto di vista della sensibilità politica?
All’Aquila? Per ora nulla. Diciamo che tutto questo potrebbe portare a due esiti: da una parte al rafforzamento della capacità critica della popolazione e dall’altra, e questo è il rischio, alla degenerazione di questa capacità in una cultura della diffidenza e della sfiducia. Bisogna aspettare ancora un po’ per capire dove si andrà a finire.