Ha destato una certa eco l’affermazione di Davide Casaleggio secondo cui presto la democrazia parlamentare potrebbe scomparire nel nostro Paese. C’è chi ha gridato al nemico della democrazia (Battista), al rischio di totalitarismo (Pasquino), all’eversione (Cerasa), chi ha ricordato il rapporto fra rappresentanza e popolo (Mauro), chi ha paventato la tirannide della maggioranza cara a Tocqueville. Lo spettro di Rousseau aleggia su di noi?

Perché la previsione, o forse è meglio dire l’auspicio, del giovane imprenditore non è di tipo «decisionista» (impropri i precedenti evocati, da Mussolini a Craxi, a Berlusconi), ma auspica una «democrazia diretta», resa possibile dalle meraviglie della rete.

Diciamolo chiaro: la democrazia parlamentare non è eterna, non c’è sempre stata e non sempre ci sarà. Certo, essa è al centro della nostra Costituzione, e di questo bisogna tener conto, con rispetto per le regole della nostra convivenza civile. Anche se si dovrebbe aggiungere che i fondatori e le fondatrici della Repubblica pensavano a un sistema parlamentare incentrato sul ruolo dei partiti, quegli stessi partiti che – per cause varie, su cui qui non posso soffermarmi – sono stati distrutti negli ultimi due decenni e a cui oggi si nega persino il minimo delle risorse materiali necessarie per fare politica.

LASCIANDO PERÒ DA PARTE la contingenza più immediata, vorrei prendere spunto dalle dichiarazioni di Casaleggio per ragionare sui rapporti tra democrazia parlamentare, democrazia diretta e democrazia informatica. Partendo da una considerazione di Massimo Luciani, che ha giudicato inattuabile l’idea di democrazia informatica perché il numero dei partecipanti a una ipotetica assemblea on line sarebbe tale da rendere impossibile una reale discussione. Il che – aggiungo – porterebbe inevitabilmente ad affidare il potere a una minoranza, che al massimo può «consultare» la maggioranza, senza che essa possa decidere realmente alcunché. È in fondo quanto insegnava un secolo fa e oltre Gaetano Mosca, l’iniziatore dell’elitismo, affermando che una ristretta classe politica è sempre destinata ad assumere il potere reale (anche al di là della facciata democratica) proprio perché ristretta di numero, e quindi in grado di organizzarsi, mentre la maggioranza, in quanto tale, a causa del suo numero ampio, non potrebbe mai farlo.

Per aggirare questa obiezione possiamo fare ricorso tuttavia a un esempio storico diverso, quello della democrazia consigliare, o soviettista.

NELLA VERSIONE TEORIZZATA da Antonio Gramsci, ad esempio, tale tipo di democrazia non è «diretta», nel senso di «immediata», poiché prevede una delega (i «delegati operai»: chi li ricorda più?), ma si distingue dalla democrazia parlamentare per due fattori: l’omogeneità sociale degli elettori che eleggono un rappresentante e la revocabilità del mandato a quest’ultimo affidato, nel momento in cui egli non rispettasse la volontà di chi lo ha eletto (vincolo di mandato).

La prima questione sta a significare che ogni «delegato» rappresenta un gruppo determinato di figure sociali, non genericamente i «cittadini»: ciò supererebbe il rischio, paventato da Marx, per cui la formale uguaglianza politica maschererebbe la sostanziale diseguaglianza economica. La seconda questione cerca di ovviare alla distanza che spesso separa rappresentati e rappresentanti, poiché costoro tendono a costituirsi in corpo autonomo e separato, che «dimentica» la volontà degli elettori.

La «democrazia consigliare» come la immaginò Gramsci ha dunque anch’essa una forma di delega, dando luogo a un edificio che, partendo dalla base, coinvolgendo e facendo discutere tutti delle questioni sul tappeto, avrebbe poi portato «per elezioni graduali» a comitati di delegati di zona, di città, di regione, fino a un consiglio generale nazionale.
Democrazia parlamentare e democrazia consigliare (dei delegati): non si tratta a mio avviso di due modelli necessariamente alternativi, ognuno presenta importanti vantaggi. Sarebbe auspicabile una qualche forma di democrazia dei consigli, diffusa nei territori, che organizzi la voce e le esigenze della società, e che vada a intrecciarsi con la democrazia parlamentare. Non è tesi nuova: fu pensata negli anni ’70 da Pietro Ingrao.

DIVERSO È INVECE IL CASO della democrazia informatica. Di fatto essa spesso finisce per essere una forma tecnologicamente avanzata di democrazia referendaria, con le sue inevitabili semplificazioni (no o sì). Ma soprattutto, restando «il cittadino» dietro il proprio computer, a casa, on line, ciascuno resta – come aveva già visto Enrico Berlinguer – un cittadino isolato, atomizzato, che non entra realmente in rapporto coi suoi simili, che non appartiene a una comunità di lavoro, di quartiere, di scuola, di università, che non discute coi suoi pari per raggiungere un orientamento comune.

Certo è anche possibile una comunità virtuale, ve ne sono tanti esempi. Ma in essa – è esperienza frequente, pur con le dovute eccezioni – la discussione o è molto limitata o degenera facilmente, e il rapporto con altri individui di cui si sa poco, o dei quali si è persino portati a dubitare l’esistenza reale, spesso non è costruttivo. Per cui o si ricade nei piccoli gruppi, lontani da una democrazia di massa, o ci si riduce alla conta dei like. Un po’ poco per chiamarla democrazia e per usare il nome di Rousseau.