Ieri il parlamento è stato alla fine sospeso (prorogued) fino al prossimo 14 ottobre, data del Queen’s Speech in cui la sovrana dovrebbe elencare i provvedimenti del governo Johnson. Il premier ha così attuato la controversa disposizione, che aveva fatto gridare al colpo di stato le opposizioni. Mentre scriviamo, l’aula non ha ancora votato sul secondo tentativo governativo di intavolare una mozione che richieda elezioni anticipate, ma si prevede largamente una seconda sconfitta, essendo improbabile che Johnson ottenga adesso quei due terzi dei consensi dell’aula necessari secondo il Fixed Term Parliament Act già negatigli la scorsa settimana.

Mossa “disgraziata”: così Jeremy Corbyn, il leader laburista che dopo molti tentennamenti è ora, di fatto, il leader del fronte filo-remain, ha definito la prorogation. Che ora sembra scarsamente utile al premier. Johnson sembra essersi giocato l’ultima, inutile, carta. Anche volendo, non ha modo di fare quel che dice di voler fare, cioè rinegoziare l’accordo di uscita con l’Ue, soprattutto per la questione del backstop nordirlandese. In caso la sua mozione per le elezioni il 15 ottobre sia di nuovo di sconfitta, si guarda così a novembre come ipotetico ritorno alle urne.

L’appassionante sfacelo della premiership Johnson continua dunque in moto circolare, anche se forse non ancora per molto. Al momento il primo ministro, la cui solidità politica fa sembrare le recenti, multiple sconfitte di Theresa May come un vittorioso tour de force, rischia l’impeachment o perfino la galera qualora si rifiutasse, come ha più volte sottolineato, di richiedere la proroga della data di uscita, tuttora fissata al 31 ottobre, che ora è legalmente obbligato a richiedere. Privo com’è di uno straccio di maggioranza, dopo un fiume di dimissioni – ultima solo in ordine di tempo quella della moderata Amber Rudd, senza contare le ventuno decapitazioni di colleghi di partito filo-remain – quella di Johnson comincia a profilarsi come la premiership più breve della storia. Eppure lui non molla, insistendo nel dire che non richiederà mai la proroga in questione come recita la legge appena promulgata e ripetendosi pronto a uscire senza accordo. La legge, lo ricordiamo, lo obbliga legalmente a richiedere l’estensione dell’articolo cinquanta del trattato di Lisbona, vale a dire un posticipo della data di uscita, presumibilmente fino al 31 gennaio 2020. Sempre che, naturalmente, l’Europa gliela conceda questa proroga: potrebbe venirgli involontariamente incontro la Francia di Emmanuel Macron, che ha visibilmente espresso la propria contrarietà in merito.

Il team di Johnson continua dunque a cercare un’impossibile via d’uscita tra il non piegarsi a richiedere formalmente la proroga e il non violare apertamente la legge. Che potrebbe essere il chiedere a un paese membro dell’Ue amico di porre il proprio veto all’estensione, come anche il richiederla ma con l’aggiunta di una seconda missiva che specifichi la contrarietà del governo a quanto espresso nella prima. Insomma, espedienti improbabili da parte di un primo ministro all’angolo, anche tenendo conto che dette elezioni, siano a novembre o dopo, potrebbero risolversi in un altro parlamento “appeso”, ovverosia senza maggioranza.

Dulcis in fundo lo speaker della camera dei Comuni John Bercow, ex-Tory apertamente filo-remain e sonoramente accusato di parzialità dal fronte del leave, ha annunciato le proprie dimissioni per il 31 ottobre, sempre che non siano indette elezioni anticipate prima di allora: lo ha fatto subito dopo che la legge anti no-deal promulgata dall’alleanza trasversale di deputati “ribelli” Tory, Labour, nazionalisti gallesi e scozzesi aveva ricevuto l’assenso reale.