Forse non ci chiederanno mai dove eravamo l’8 ottobre 2019 alle 17.45. Un cronista parlamentare tende a sopravvalutare i passaggi istituzionali, e magari il voto con cui la camera dei deputati ha ridotto se stessa, e il senato della Repubblica, per la prima volta in oltre 150 anni di storia dell’Italia unita – con l’eccezione di due legislature fasciste durante le quali il numero dei deputati era esattamente lo stesso, 400, di quello stabilito adesso dalla riforma Di Maio – magari chissà, questo 8 ottobre non lo ricorderà più nessuno. Se sarà così vorrà dire che quelle luci tutte verdi sul tabellone delle votazioni – solo 14 contrari, due astenuti e 553 favorevoli al taglio di oltre un terzo dei parlamentari – annunciano una nuova era non tanto cupa come ci appare oggi.

In ogni caso eravamo lì, nella tribuna dell’aula di Montecitorio rinnovata e allargata giusto cent’anni fa da Ernesto Basile e che adesso bisognerà smontare, riadattare, restringere. E abbiamo visto la felicità dei deputati 5 Stelle e immediatamente la festa sui banchi del governo. I ministri grillini protesi in fortissimi abbracci, le mani sbattute a darsi il cinque tra loro, e quelli del Pd come invitati fuori posto. La finzione del governo che non parla in aula per rispetto del parlamento è subito caduta. Una fila di luci verdi anche davanti ai ministri e ai sottosegretari: senza questo voto non ci sarebbe stato il Conte due. Conte infatti sta lì, al centro della scena, arrivato un attimo prima della conclusione e andato via con un tweet: «Passaggio storico».

Abbiamo visto l’aula riempirsi piano durante le tre ore e passa dedicate alle dichiarazioni di voto, molte assai critiche con la riforma eppure sempre concluse dall’annuncio di voto favorevole. Abbiamo sentito il capogruppo del Pd Delrio spiegare che la capriola del partito (che aveva votato tre volte no) si spiega con i precisi impegni sulle riforme di «contorno»: costituzionali, dei regolamenti e della legge elettorale – il patto prevede che sia proporzionale. «Ed è un patto tra persone serie», ha detto come ad augurarselo Delrio. Anche il capogruppo di Leu Fornaro ha insistito sul complesso delle garanzie per motivare la svolta a U delle sinistre e dunque il voto favorevole. Abbiamo sentito solo loro ricordare questo patto, mentre la 5 Stelle Macina che per i padroni della festa ha concluso gli interventi ha puntato tutto sui risparmi che questo taglio dei parlamentari garantirà. Un argomento che Pd e Leu avevano invitato a tenere in secondo piano, spiegando che la democrazia ha i suoi costi ed è bene così. Nel frattempo, nelle stanze del gruppo parlamentare, i 5 Stelle recuperavano un paio di forbici giganti di cartone, le stesse che erano già pronte il 9 maggio scorso per il primo passaggio della riforma alla camera. Allora non erano state esibite perché si fece tardi.

Abbiamo sentito gli applausi al termine degli interventi del Pd e dei 5 Stelle, assai tiepidi perché ogni gruppo applaudiva solo se stesso. E non applaudivano tutti. «Votiamo convintamente sì», ha detto Delrio. «Il voto mi è costato moltissimo ed è stato gestito malissimo», ha ammesso poco dopo Orfini. Tra i renziani, Giachetti ha prima demolito la riforma, poi annunciato che raccoglierà le firme tra i deputati per il referendum, infine ha votato sì «per lealtà». Per avere il referendum confermativo, di firme di deputati ne servirebbero 126; ma i voti contrari ieri sono stati 14 di cui 13 nel gruppo misto e una in Forza Italia, astenuti solo una deputata del Pd eletta all’estero e uno del misto. Il referendum sarebbe una sfida quasi impossibile da vincere, ma in ogni caso sposterebbe la promulgazione della legge dal prossimo 8 gennaio (trascorsi tre mesi da ieri) alla fine dell’estate 2020. Tempo utile per approvare le riforme «contrappeso».

Dalla tribuna di Montecitorio abbiamo visto tutti o quasi tutti i deputati della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia ai loro posti, com’era prevedibile a dispetto di una settimana di annunci allarmistici di fonte maggioranza. Nessun agguato in programma, nessun rischio e quasi nessuno che se la sia sentita di chiamarsi fuori dal sacrificio rituale. «Abbiamo sempre votato sì a questo riforma e lo confermiamo. Ora però tagliate i costi per l’accoglienza dei clandestini», ha colto l’occasione il leghista Iezzi. In effetti la Lega può rivendicare il suo ruolo in questo taglio. I parlamentari del Pd raccontano che, durante la crisi di governo, ci fu un momento in cui Salvini offrì a Di Maio il voto immediato alla riforma bandiera dei 5 Stelle. I dem, per trattenerlo nella nuova alleanza giallo-rossa, offrirono subito altrettanto, in cambio di un impegno scritto sui correttivi per recuperare la rappresentatività e differenziare il bicameralismo paritario. «Siamo leali alla maggioranza», ha detto effettivamente ieri Di Maio dopo il voto. Aggiungendo però che adesso non è il momento di parlare dei problemi della rappresentanza e che per i 5 Stelle il bicameralismo paritario va benissimo così.

Alla fine abbiamo visto i deputati grillini e anche qualche senatore correre verso l’uscita di Montecitorio, radunarsi con Di Maio nella piazza dietro uno striscione di carta con l’immagine di tante poltrone. Il capo politico l’ha strappato e dietro ne è apparso un altro con l’annuncio del famoso miliardo di risparmi. Un miliardo in dieci anni dall’entrata in vigore della riforma, precisavano poi i 5 Stelle – facendo bene i conti di anni ne serviranno quasi venti per arrivare a quella cifra. Davanti a una ventina di passanti, soprattutto turisti, a un certo sono arrivate anche le forbici di cartone. Ma non le hanno usate. Erano rotte.