Da Parker a Parker. Non Charlie «Bird» a cui tutti pensano quando sentono quel cognome. Da Evan a William, uno inglese l’altro afroamericano. L’acme di Bergamo Jazz 2017 è raggiunto durante i concerti dei due Parker. Anche se c’è dell’altro di interessante o piacevole, intendiamoci.

Evan Parker, dunque. In solo al sax soprano nella magnifica sala della Biblioteca Angelo Mai. Il solito Evan Parker? No. Dolcificato? No. La radicalità della traiettoria di una vita non si perde. Nel suo eloquio sembra dilatata la sovrapposizione di linee di suoni. Ci sono uno o più «bassi continui» (come funzione, non come collocazione in un registro) e la linea che emerge è a sua volta moltiplicata in più linee, così che si ascolta un ventaglio di suoni ininterrotti. Niente pause? Niente silenzi? Niente importanza «di ciò che non si suona», come dice Steve Lacy sulle orme del suo maestro Monk in una delle 35 interviste pubblicate in Conversazioni con Steve Lacy (Edizioni Ets)? Questo è un problema delle scelte di poetica di Evan Parker quando suona in solo. Ma lui la pensa così. E il risultato è grandioso. Riesce a non far sentire la mancanza di pause e silenzi. Però oggi il suo discorso non è un continuum ma una serie di sezioni diverse – alcune più accese, altre più pacate – di cortine di suoni ininterrotti.Tinissima Quartet ripropone la suite ispirata a Woody Guthrie e alle canzoni di protesta americane. Francesco Bearzatti (sax, clarinetto), Giovanni Falzone (tromba), Danilo Gallo (basso) e Zeno De Rossi (batteria) suonano commossi con un affiatamento invidiabile.

Bill Frisell, (chitarra) e Kenny Wollesen (batteria) sono perfetti, raffinatissimi, nell’eseguire una immaginaria colonna sonora tra country e blues di un immaginario film on the road. Christian Wallumrød in quintetto (lui sì che lavora sui silenzi!) tenta l’esperimento di fare qualcosa alla Feldman o alla Scelsi con richiami a melodie norvegesi. Da studiare. Ernst Reijseger nelle sale dell’Accademia Carrara, tra un Lotto e un Mantegna, delizia, stupisce, diverte, provoca col suo solo di violoncello e tanta clownerie. Le dieci musiciste della Marilyn Mazur’s Shamania fanno uno show gradevolissimo. La leader suona un set gigantesco di percussioni, tutte conoscono ogni musica, dal jazz modern e free alla world, improvvisano con sapienza e audacia. Applausi sinceri. Applausi fino a un certo punto per Melissa Aldana, ternorsassofonista cilena di stanza a New York. Fino a quando pensa di abbandonare un meraviglioso «legato» in un fraseggio post-cool, spezza le frasi, altera il timbro e si perde.

Poi arriva il William Parker Organ Quartet. Se nella musica c’è una verità – e la parola è pericolosa – eccola. Il giovane saxtenorista James Brandon Lewis si mette subito nel fuoco della battaglia. Frequenta la linea Coltrane-Shepp-David S. Ware e di suo ha vivezza potenza forza d’animo. Inventiva fluente. Passione di blues e di free, quest’ultimo termine rimanda alla svolta più importante nella storia del jazz, tipo la Rivoluzione d’Ottobre, mettiamo (cent’anni fa, do you remember?). Cooper Moore, riservato santone, è incredibilmente all’organo (di solito preferisce certi strumentini autocostruiti) e compie una splendida sintesi tra funky e free usando il glissando con follia lucidissima. Di Parker e di Hamid Drake che cosa dire ancora? Il primo guida al contrabbasso con questo inedito quartetto l’ennesima pregnante performance della Comune di New York, di cui è leader. Al secondo basta essere il più completo e caldo drummer in circolazione. Un’ora di esaltazione mentale, fisica, spirituale. Politica.