Fatta la legge, questa volta non ci sarà neanche bisogno di trovare l’inganno. Perché le nuove «disposizioni volte a garantire l’equilibrio nella rappresentanza tra donne e uomini nei consigli regionali» approvate con generale entusiasmo ieri, definitivamente, alla camera, rischiano di fare la fine di tutte le leggi «manifesto» che sono utili per i comunicati stampa ma poco efficaci per cambiare lo stato di cose. Che è naturalmente mortificante: zero donne nel consiglio regionale della Basilicata, 3,3% di donne in Calabria, 10% in Puglia, 15 in Umbria e così via. La media nazionale è del 18% di donne. Ma non si può dire che la legge non ci sia.

Con identica finalità «di riequilibrio», infatti, era stata approvata un’altra legge nel 2012. Gli effetti (non) si sono visti. Inevitabile, visto che la potestà regionale sulla scelta del sistema elettorale resta piena, e le regioni italiane infatti non hanno leggi assimilabili. In praticamente tutte, poi, ci sono le preferenze che consegnano agli elettori la scelta finale sulla composizione del consiglio. Un sistema di «quote» può funzionare, al limite, solo con le liste bloccate. La nuova legge voluta dal Pd e votata quasi da tutti i partiti (non dal Movimento 5 Stelle, sì a malincuore da Sinistra italiana come male minore, no di Fratelli d’Italia, Lega e verdiniani) si limita a dare indicazioni alle regioni affinché nelle liste da sottoporre agli elettori gli uomini (in teoria anche le donne) non siano rappresentati oltre il 60%. Nel caso di liste bloccate è prevista l’alternanza tra i sessi. Quest’ultima una previsione già contenuta nella legge elettorale della regione Lombardia, ma con il risultato che le donne elette in Consiglio sono state appena 15 su 65 consiglieri.

Ragione per cui la nuova legge prima ancora di ogni discorso sulle pari opportunità e sull’accettabilità delle «quote», rischia di essere inutile. Tanto più che non sono previste – né la Costituzione lo consentirebbe – sanzioni alle regioni inadempienti.