Peculiarità della «Paris Review» sono sempre state le interviste a scrittori sul rapporto con la propria scrittura e le specificità del loro metodo compositivo. Protagoniste della versione italiana dell’antologia The Paris Review Interviste n. 5 (Fandango Libri, € 22,00), sono dodici scrittrici americane ed europee, alcune nostre contemporanee, altre dello scorso secolo. La raccolta presenta inevitabili squilibri per la temperie di quando le interviste furono realizzate e il carattere e la diversa professionalità degli intervistatori.
Fondata nel 1963, a Parigi (da cui il titolo) da un gruppo di amici, tra questi il «dilettante» George Plimpton (destra repubblicana, in politica) e il romanziere e naturalista, più tardi sacerdote zen, Peter Matthiessen, da qualche anno la sede della rivista è stata trasferita negli Stati Uniti. Negli anni parigini, suo principale obbiettivo, perlomeno per la CIA, che insieme al principe Sadruddin Aga Khan la finanziava, era la penetrazione culturale in Europa. Peter Matthiessen, che a Parigi viveva in una peniche sulla Senna, era un agente dell’Organizzazione.
Nota per lo spirito caustico e l’iconoclastia dei suoi scritti, Dorothy Parker (1893-1967), uno dei «mostri» degli anni venti e trenta, emerge «armata come Minerva» dall’interrogatorio (1956) cui la sottopose Marion Capron. Rothschild di nascita («ma di quelli molto poveri», si affrettava a chiarire), ammiratrice di Hemingway, giornalista per «Vogue», poi di «Vanity Fair», che la licenziava per la stroncatura di un testo teatrale, dopo un periodo di disoccupazione trasmigrava al «New Yorker». Trasferitasi a Hollywood, sceneggiò, tra gli altri Il ventaglio di Lady Windermere di Oscar Wilde e Piccole volpi di Lillian Hellman, guadagnandosi una candidatura all’Oscar. Durante la famigerata «caccia alle streghe» del secondo dopoguerra, sarebbe finita nella lista nera della Commissione senatoriale per le attività antiamericane daccapo rimanendo senza lavoro e rapidamente diventando una non-persona. Le simpatie politiche per i lealisti nella guerra di Spagna e l’essere stata una «prematura antifascista» (aveva fondato nel ’36 un lega anti-nazista) l’avevano fatta catalogare dall’FBI come sovversiva. Alcolizzata, una vita disordinata non soltanto dal punto di vista sentimentale e autopunitiva, appassionata, demistificatrice in primo luogo di se stessa, sulla propria attività creativa lasciò l’icastica dichiarazione «Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette». Sul rapporto scrittore-denaro, le sue parole suonano come anatema alle opinioni di un nostro recente primo ministro. «L’artista contribuisce enormemente al prestigio del proprio paese; se lo stato vuole scrittori e artisti, deve contribuire».
Per l’inanità dell’intervistatore, il dialogo (1956) con la baronessa Karen Blixen (Izaak Dinesen: 1885-1962) è di tale snobismo da far pensare, a chi ha conosciuto l’affabile signora che amava le marionette, a un’autoparodia condita di disprezzo verso la persona che l’interrogava. Che accenni di sguincio alla propria scrittura o rievochi i suoi viaggi, il padre cacciatore tra i nativi del Wisconsin, un’udienza dal pontefice a Roma, l’amicizia con Anthony Eden che le permise di mettersi in contatto con un editore inglese, Blixen, in questi mondani chiacchiericci, appare come un avatar di Caterina di Russia a un tè con Grigorij Potëmkin, e stupisce che non usi il «noi» parlando di sé. Contribuisce all’immagine il sottomesso coro greco della segretaria, nel doppio ruolo di domestica e suggeritrice. Una più esatta collocazione del testo sarebbe stata qualche rivista destinata a un pubblico diverso da quello della «Review» se non proprio la pagina satirica del supplemento domenicale di qualche quotidiano.
Non del tutto soddisfacente neppure l’intervista (1978) a Elizabeth Bishop (1911-1979) ma in questo caso è dell’intervistata la responsabilità. Malgrado il sottotitolo «l’arte della poesia», ben poco è sviscerato dei metodi compositivi della scrittrice, il suo rapporto con le parole, la funzione, creativa o meno, della memoria – Bishop ci gira attorno con aneddoti di persone e luoghi evitando accuratamente di affrontare il cuore dei problemi. E volonterosa ma troppo timida è l’intervistatrice. Nessun accenno, perciò, al peso dell’eredità puritana su questa figlia del New England in fuga da se stessa per le sue scelte erotiche. Forse sarebbe stato utile tentare di «inchiodarla» partendo dal suo famoso verso The art of losing isn’t hard to master (l’arte di perdere non è difficile da imparare).
Marguerite Yourcenar (l’intervista è del 1987, anno della morte) non apprezzava Henry James condividendo il giudizio di Somerset Maugham che lo scrittore americano era come un alpinista «equipaggiato per scalare l’Himalaya e si limita a passeggiare in Baker Street». Maugham parlava dall’alto delle sue propensioni a invidia e maldicenza ma non è detto che l’aristocratica M.lle Cleenewerk de Crayencour (Yourcenar ne è l’anagramma) fosse immune perlomeno da una di quelle «virtù». Potrebbero farcelo sospettare il giudizio su Gide che trovava «a tratti superficiale» – come se l’affermazione non si potesse ripetere per qualsiasi scrittore per quanto grande. Dopotutto Quandoque bonus dormitat Homerus. Riguardo a James, più credibile è che sfuggisse a Yourcenar il coacervo di sfiducia in se stesso, vergogna e sensi di colpa per una misteriosa «imbarazzante ferita», orgoglio nella necessità morale di produrre un’opera e al tempo stesso coscienza dell’inferiorità del prodotto rispetto alla sua astratta concezione sicché, dietro le difese dell’arroganza, un ulteriore senso di colpa si annidava – il tutto a costituire il cuore dell’ethos di quell’espatriato dai labirinti di un feroce New England, sempre insoddisfatto nella ricerca di una nuova patria.
Anche quest’intervista è aldi sotto di ciò che avrebbe potuto essere, soprattutto al confronto con le testimonianze di Yourcenar reperibili nei Propos et confidances della tv canadese (’83). Lì, com’era consuetudine per le interviste «classiche» della «Review», è sulla meccanica della scrittura, le influenze letterarie («Non credo alle influenze» sarà la risposta), la scelta dei temi, l’artigianato della composizione, la sopravvivenza dell’opera, che è interrogata, e risponde, la signora. In quest’altra intervista il discorso si arena su rievocazioni della storia di famiglia, qualche preferenza letteraria (apprezzava la prosa di The Killers di Hemingway), il rapporto con lo spettro di Mishima ma anche su quest’ultimo argomento il discorso è superficiale – e uno pensa ai due incontri di Yourcenar con Bernard Pivot per la tv francese.
È un sollievo, pertanto, ritrovare la boccata d’aria respirata con Porter nelle considerazioni, pur se prive d’autoironia, dei britannici Jan Morris (un ex lanciere di Sua Maestà britannica con soggiorni al Cairo, gli Usa, l’Asia ma anche molta Venezia nel suo passato); Hilary (Thompson) Mantel (irlandese di Manchester, famiglia poverissima, il Botswana nel carnet di viaggio); nonché la molto americana Toni Morrison dal considerevole bagaglio culturale. È in profondità che questi autori parlano del loro mestiere e come i libri che hanno letto (nel caso di Mantel, tra testi elisabettiani e testimonianze sulla rivoluzione francese fa capolino Compton-Burnett) possano o non possano essere confluiti, in tutt’uno, con le esperienze personali e i sogni e le ossessioni, nella loro visione del reale.
Di particolare interesse, in Morris, sottopostosi a un’operazione per diventare donna, è se il cambiamento di sesso abbia portato qualche variazione nella sua sensibilità, come, con intelligenza, gli chiede l’intervistatore – mutamento che Morris dapprima nega sia avvenuto poi, indirettamente, finendo per smentirsi quando parla dei suoi libri pre- e post-intervento.
Acuta, astuta, per molti versi «del mestiere», Morrison ci apre squarci nella propria psiche di afroamericana a cavallo degli anni di Luther King. Geniali le osservazioni su come un bianco, amico o meno, possa parlare delle persone di colore e «trasformarsi» in quelle, diventando lui stesso «nero». Il discorso investe principalmente Faulkner e Hemingway – e sorprendenti, al riguardo, appaiono le osservazioni su un personaggi di The Garden of Eden.
Arrestanti, nella loro crudeltà, gli interventi (1956) di Simone de Beauvoir, le cui analisi del reale, sottoponendo la propria carne al bisturi dell’intelligenza, ci trascinano in un mondo che dimentichiamo talvolta sia mai esistito quando il ruolo della testimonianza e il giudizio sui fatti erano considerati inseparabili dalla pratica della scrittura. Quanto allo stile… (sul)«la qualità letteraria del mio lavoro, nel senso più stretto del termine», dichiarava perentoria, «non ho la più pallida idea».
Arroganza? Indifferenza? Umiltà?