Al termine del consiglio di difesa, venerdì scorso l’Eliseo ha dato via libera al dispiegamento di altri 400 soldati a sostegno dei suoi 1,600 già di stanza a Bangui da dicembre e ai 5,500 della Missione internazionale di sostegno alla Repubblica centrafricana sotto la guida africana (Misca). Eppure, a dispetto della presenza delle forze francesi dell’Operazione Sangaris e di quelle regionali africane, la Repubblica Centrafricana resta in balia di una spirale di violenza ipnotica che rischia di fagocitarla in un vortice di destabilizzazione statale e sociale continuata. Con effetti a lungo termine geopoliticamente traumatici, tanto per le sue già precarie condizioni di sopravvivenza, quanto per i Paesi limitrofi. L’ex colonia francese, senza sbocchi sul mare, confina infatti con ben sei stati tra cui il Sudan e la Repubblica Democratica del Congo. Va da sé, che un suo ulteriore sfaldamento agirebbe da detonatore in una delle polveriere più importanti dell’Africa Centrale. È come se questo stato della Françafrique, da sempre ai margini delle agende politiche regionali e internazionali – sin dall’epoca coloniale, quando era nota come la cenerentola della madrepatria fino a diventare lo stato fantasma per eccellenza dei tempi moderni della post-decolonizzazione – avesse introiettato l’incapacità stessa di riscattarsi dalla dannazione di essere vittima delle faide etniche interne e delle velleità politiche della troika dell’Occidente, dei Paesi emergenti e delle economie africane che contano. I quali non sanno andare oltre una risposta unicamente militare.

Un abuso del termine conflitto religioso serpeggia in questi giorni sulla stampa internazionale e sui comunicati delle organizzazioni umanitarie più importanti, che a diverse gradazioni si richiamano tutti alla guerra di religione – c’è chi addirittura ha tirato in ballo la jihad – per incasellare in qualche modo la lotta tra bande di mercenari che sta facendo strage di civili da almeno un anno, dalla débâcle di Bangui cioè a marzo 2013 a opera della coalizione Seleka. Una violenza ipertrofica di cui sono vittime, a rotazione, tanto le comunità cristiane che la minoranza «araba» – come sono intercalate le popolazioni del nord da quelle cristiane – per la quale Amnesty International e personale dell’Onu hanno invocato la logica della pulizia etnica.
Decine di migliaia di musulmani – circa 100 mila secondo Amnesty – hanno lasciato in massa le città nord-occidentali di Bouali, Boyali, Bossembele, Bossemptele, Baoro e il quartiere PK 5 nel centro della capitale, Bangui, per raggiungere il Chad e il Camerun o diretti senza meta nelle boscaglie nei dintorni per sfuggire alla furia omicida delle milizie Anti-balaka (anti-machete nella lingua locale Sango). Mentre in totale sarebbero circa 838mila gli sfollati e 2,000 i morti da quando i ribelli Seleka hanno marciato su Bangui a marzo scorso.

Eppure, quella che ha tutti i caratteri di una radicale tropicizzazione della violenza e per questo viene dipinta come una guerra similreligiosa dai media di mezzo mondo, di religioso non ha né caratteri né finalità. Si tratta dello scontro tra due bande di combattenti assoldati da burattinai politici, che mirano al controllo del territorio e delle risorse minerarie. Uno scontro cavalcato dall’ira di chi, dopo mesi di torture e di massacri, vede nei Seleka gli stranieri del nord di fede islamica, che non parlano né francese né sango scesi alla conquista delle popolazioni del sud.
Alla base della rivolta dei Seleka – coalizione di fazioni ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari – di marzo 2013 c’era l’accesso alle risorse per le popolazioni del nord, soprattutto di quelle petrolifere nelle mani della China National Petroleum Corporation. Gli Anti-Balaka sono per lo più giovani analfabeti orfani di famiglie uccise dai ribelli Seleka. L’ala minoritaria – i Combattants pour la libération du peuple centrafricain – sarebbe legata al Front pour le retour à l’ordre constitutionnel en Centrafrique (FROCA), il movimento creato in Francia dall’ex Presidente Bozizé, che pur negando il sostegno agli Anti-balaka, mira a un ritorno a Palazzo.