Con la fine delle sfilate di Parigi si chiude anche la lunga presentazione delle collezioni p/e 2015 che ha visto New York, Londra, Milano e Parigi nella difficile impresa di immaginare il nuovo della moda che sarà. E non sarà molto diverso da quello che c’è. Per questo, la stampa inglese ha duramente attaccato la moda italiana dichiarandola nostalgica e antiquata per la sua rivisitazione degli Anni 70 e per l’età avanzata dei suoi protagonisti. Un tentativo antistorico, maldestro, e anche molto provinciale, di riportare il tempo indietro, a quando esisteva una moda che si poteva chiamare francese e una che si poteva dire italiana e, molto più tardi negli anni, una moda inglese, legata più ai movimenti giovanili, culturali e non, che a esigenze estetiche.

Ma a differenza di quanto si crede e di quanto riportano le erronee informazioni sulla moda, la minigonna non è stata inventata a Londra ma a Parigi dallo spagnolo Paco Rabanne:poi, l’inglese Mary Quant la collegò al movimento degli Anni ’60 e se ne servì come mezzo per la liberalizzare l’immagine femminile. Ed è proprio da qui che si deve partire per poter affermare che non esiste una moda nazionale, semmai la differenza può farsi tra la moda europea e quella americana, con la seconda che oscilla sempre tra il ricordo dei grandi costumisti hollywoodiani e il troppo basico di jeans e T-shirt.

Comunque, la situazione attuale è che la Gran Bretagna, famosa per i suoi tessuti pregiati, è stata privata dell’industria tessile dall’assoluta mancanza di immaginazione di Margareth Thatcher, in Francia hanno abbandonato l’industria a favore del recupero dei laboratori artigianali storici (esiste perfino una legge che li tutela e li finanzia dichiarandoli patrimoni nazionali) e in Italia l’industria produce la moda di tutto il mondo.

In questo quadro, i protagonisti della creatività si sono mescolati in varie latitudini, per cui se un italiano come Italo Zucchelli disegna la moda uomo di un marchio americanissimo come Calvin Klein, un americano come Marc Jacobs ha disegnato per 15 anni la moda del francese Louis Vuitton. E ancora, in marchi francesi tradizionalissimi come Givenchy e Rochas, il timone creativo è in mano a due italiani, Riccardo Tisci e Alessandro dell’Acqua, mentre il belga Raf Simons e il tedesco Karl Lagerfeld disegnano Christian Dior e Chanel. Detto questo, una differenza c’è, però.

Ed è il contesto diverso in cui si lavora a Milano, città sostanzialmente provinciale, e a Parigi, capitale di un internazionalismo ancora senza pari. Come giustamente sintetizza Didier Grumbach, un grande visionario della moda che ha retto per 16 anni la Fédération française della moda: «Parigi è una piattaforma avanzata per le visioni che possono cambiare la storia del costume. Rick Owens non farebbe la stessa collezione se fosse ancora in California». Perché? Perché questo è il ruolo che Parigi si è conquistato con la sua Storia. Anche quella della moda.
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