Mohamed è un ragazzo, non è neppure maggiorenne, ma mentre ascolti le sue storie sembra che nel mare abbia attraversato tante vite tutte assieme. Sylvain George lo ha incontrato per caso, da allora come dice fa parte della famiglia. «Quando ci siamo conosciuti era tornato a vivere in strada. L’istituto di accoglienza lo aveva messo alla porta sostenendo che non era minorenne. C’è voluto molto tempo per risolvere la sua situazione, grazie all’aiuto degli avvocati siamo riusciti a dimostrare che i suoi documenti erano validi. Ora va a scuola, ci sentiamo ogni giorno, vorrei che lavorassimo ancora insieme. È un’intelligenza molto brillante, nei nostri primi incontri abbiamo discusso a lungo, gli ho spiegato cosa stavo facendo, quali erano le mie idee per il film. Poi abbiamo iniziato a provare, in scena accanto a Valérie Dréville (Noir Inconnu, al Centre Pompidou lo scorso anno, ndr) che è una grande attrice di teatro, è riuscito subito a trovare il suo spazio e la sua dimensione».

 
Mohamed è uno dei protagonisti di Paris est une fête, il nuovo film di Sylvain George presentato nel concorso internazionale di Cinéma du Reel, il festival del documentario che si è appena chiuso a Parigi. Bianco e nero, respiro epico, sciabolate di luce e di ombre, compone un racconto del nostro tempo avventurandosi nelle sue zone « a rischio», lungo quei bordi che definiscono l’immaginario.

 

 

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Ma questa è la sfida del cinema di Sylvain George sin dai primi cortometraggi (No Border, 2005-2008) un’esigenza che permea ciascuna delle sue

immagini affermando al tempo stesso un gesto di resistenza estetica e politica nei supporti (video, super8, telefono portatile), nei soggetti, nella scelta di un punto di vista che predilige la consapevolezza alla consolazione.

 

 

Ci sono i migranti nei film di Sylvain George, come quelli che abitano Que ils reposent en revolte (2010) o Les Eclats (2011), Calais, le fughe dalla polizia, l’ostilità dell’occidente, la «giungla». Vivere da clandestini sperando di trovare un posto per sé sull’altra sponda, nella Gran Bretagna che stringe i controlli e potenzia ogni giorno le «difese«. Storie di guerre, di esili, di violenze. Di vite separate, di sogni, del tentativo disperato di inventare un’ altra possibilità in cui vivere. Di una sapienza che è diventata tra chi arriva in Europa una manuale di accorgimenti per sopravvivere. E ci sono i movimenti sociali come in Vers Madrid (2012-2014), la piazza del 15-M a Puerta del Sol che prova a opporsi ai ricatti della finanza, a quelle politiche europee e nazionali che calpestano le democrazie.

 
La « festa» a Parigi è qui, tra questi poli in cui il presente si manifesta impetuoso mettendo in discussione le abitudini della propria rappresentazione. Non c’è nulla di rassicurante, di confortevole nel bianco e nero potente di queste immagini che interrogano la cifra politica dell’immaginario a partire dalla loro forma. Il sottotitolo dice: «Un film en 18 vagues», un film in diciotto onde, i movimenti che attraversano il paesaggio urbano della capitale, i rifugiati, le Nuit Debout, gli attentati, lo stato d’emergenza, la brutalità della polizia, l’oceano atlantico,i vulcani, «la collera e la gioia».

 
«Oggi non possiamo più sfuggire alla dialettica globale/locale, macrocosmo/microsmo; il mondo è caratterizzato da flussi diversi, migratori, dei capitali legati alla trasformazione delle economie in senso finanziario, e questo crea un groviglio tra interno e esterno, sfera pubblica e privata di fronte a quali il cinema sembra andare sempre più verso una dimensione esotica o spettacolare di un cinema come luna park» dice ancora Sylvain George.

 

 

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Nel film  Mohamed Camara ripercorre la sua esistenza, la morte del padre, la miseria, la decisione di partire dalla Guinea vivendo in molti altri paesi africani prima di arrivare in Europa. Il lavoro, l’ostinazione che gli ha insegnato a cavarsela. Il suo volto in primo piano è intenso, la voce tranquilla, il regista lo filma con delicatezza e rispetto, senza cercare di vestirlo da vittima. Poi Place de la Republique, Parigi, e le manifestazioni contro lo stato d’emergenza, contro la legge El Khomry. I testi di Henri Michaux e di Rimbaud…Cosa dicono le pietre, le statue, le strade della città, cosa mostra quella sinfonia della metropoli contemporanea? La polizia arriva, i rifugiati che dormono in strada sono costretti a fuggire. Qualcuno cerca protezione nell’oscurità di un parco, altri rimangono seduti sulla panchina, chiudono gli occhi in cerca di un riposo negato, Mohamed brilla avvolto nel suo foglio di alluminio. Un portone diviene la notte la casa per chi non ce l’ha. Ogni giorno gli stessi gesti,

 
In piazza  i manifestanti vengono dispersi dalla polizia, lo stato d’urgenza permette di colpevolizzarli, di renderli i resposnabili di una instabilità: l’azione poliziesca è molto dura, la macchina da presa entra nello scontro, ci trasporta lì. in quel momento, tra chi prova a resistere. Due aspetti del nostro tempo, due evidenze di repressione. Cosa accade qui, l’indifferenza che ha bisogno di commuoversi, il fastidio verso chi protesta. Le immagini sono piene di una bellezza che è collera, pensiero critico, desiderio di scomporre la contemporaneità. Nei suoi frammenti, infatti, il regista riesce a tracciarne una linea storiografica, a cogliere la somiglianze tra quei «flussi», le affinità di una condizione contemporanea, appunto. E il disegno di cancellarne gli spigoli, le durezze per lasciare ciò che serve all’oblio