Oggi, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, presieduto per un mese dalla Francia, dovrebbe approvare all’unanimità la proposta di risoluzione presentata da Parigi sulla crisi nella Repubblica centrafricana. Verrà dato mandato alla forza panafricana Misca di dispiegarsi «per un periodo di 12 mesi», con una clausola di revisione tra sei mesi, per «proteggere i civili e ristabilire ordine e sicurezza con mezzi appropriati». Se l’operazione andrà in porto, non dovrebbe esserci, in prospettiva, un’operazione di peacekeeping dell’Onu. Invece, la Francia interverrà direttamente: l’operazione «Sangaris», del resto, è già iniziata (è la settima della Francia in Centrafrica dalla decolonizzazione), sul posto ci sono già più di 600 soldati francesi, che dovrebbero raddoppiare a breve per mettere in sicurezza la capitale Bangui e le principali strade del paese.

Al ministero della Difesa parlano di un’operazione di polizia più che militare, destinata a fronteggiare gli effetti della violenza degli ex ribelli della Seleka, che fa temere un «rischio di genocidio», dicono a Parigi, dove pesa ancora lo spettro del Ruanda. Per il ministro della Difesa Yves Le Drian, dopo l’intervento in Mali, l’operazione prevista in Centrafrica è «una buona illustrazione» del nuovo approccio francese nelle relazioni con le ex colonie. «I paesi africani devono occuparsi della loro sicurezza – spiega Le Drian – ma noi non possiamo lasciarli soli di fronte a delle minacce che potrebbero riguardarci direttamente». Parigi sostiene che, come per il Mali, la Francia si impegna per evitare il peggio anche all’Europa (anche qui rischi di presa di potere jihadista e di destabilizzazione di tutta la regione). Ma come per il Mali, la Francia in Centrafrica interverrà da sola (con minimo appoggio logistico di alcuni paesi Ue), prova ulteriore della non esistenza di una politica estera e di difesa europea.

Per segnare quella che vuole essere una svolta nella continuità delle antiche relazioni con il continente, questa settimana a Parigi si susseguono due vertici Francia-Africa: ieri, al ministero dell’economia, erano invitate circa 600 persone, politici ma soprattutto imprenditori, per discutere di «un nuovo modello di partnership economico tra l’Africa e la Francia». Venerdì e sabato avrà luogo all’Eliseo un summit su «pace e sicurezza in Africa». L’Europa resta ai margini, anche se all’Eliseo sarà presente il presidente della Commissione, José Manuel Barroso.

L’ex ministro degli esteri Hubert Védrine ha presentato un rapporto, che riassume in 15 proposte il nuovo approccio francese, che intende farla finita, almeno a parole, con la vecchia «Françafrique» degli affari e dei compromessi anche personali con i vari dittatori, soprattutto dell’Africa francofona. Da un punto di vista economico, il punto di partenza è l’affermazione che l’Africa non è solo più un continente da sfruttare per le sue materie prime, ma una zona economica che promette una imminente espansione. «L’Africa può diventare un nuovo Eldorado per la Francia» afferma Védrine e per evitare di perdere il treno propone, tra l’altro, di avere una politica dei visti, per uomini d’affari e studenti, meno restrittiva di quella attuale, ossessionata dalla paura dell’immigrazione.

«In Africa è un rischio non esserci» riassume Philippe Gautier, vice-presidente del Medef International (sezione internazionale della Confindustria francese).

Negli ultimi dieci anni, l’Africa ha avuto una crescita media annua intorno al 5,5% (al di sopra della crescita mondiale, al 3,7%) e dovrebbe arrivare a più 6,4% nel 2014, secondo la Banca africana di sviluppo. Le classi medie crescono, rappresentano già oltre 300 milioni di persone. Nel 2050, ci saranno 2 miliardi di africani, il doppio di oggi, e la spesa annuale delle famiglie dovrebbe passare, entro il 2020, dagli attuali 840 miliardi a 1400 miliardi di dollari. In altri termini, l’Africa, che ora rappresenta solo il 2% del commercio mondiale, diventa interessante per gli scambi e per gli investimenti, c’è bisogno di tutto, infrastrutture, beni di consumo, servizi bancari, logistici ecc. Ma la Francia ha perso terreno economico in Africa: la sua parte di mercato è caduta dal 15% al 5%, a favore degli emergenti, Cina, India, Brasile, Turchia, Corea del sud, che nell’ultimo decennio hanno considerevolmente aumentato la loro presenza economica nel continente (la Cina è passata dall’1% al 15% di parti di mercato). In prospettiva, il rapporto Védrine calcola che in Francia potrebbero venire creati 200mila posti di lavoro grazie all’aumento degli scambi con l’Africa, che ora rappresentano solo il 7% del commercio estero francese. Con i due vertici di questa settimana, la Francia intende approfondire le relazioni al di là del tradizionale pré carré francofono (che comunque rappresenta 100 milioni di persone), verso l’Africa anglofona e lusofona. Certo, Total, Areva, Suez, Alstom, Vivendi, le grandi banche e tutti i grossi gruppi continuano a fare la parte del leone, ma già oggi ci sono più di 60mila imprese francesi che lavorano in Africa, nei settori più diversi. I francesi che vivono in Africa sono 250mila, mentre in Francia ci sono 2,3 milioni di africani.