Generali ministri li avevamo già visti, anche un ammiraglio. Mai a nessuno, però, era venuto in mente di battere i tacchi e mettersi sull’attenti un attimo prima di giurare fedeltà alla Costituzione – e non obbedienza al presidente della Repubblica o, chissà, al presidente del Consiglio Conte. Lo fa adesso Sergio Costa, ministro dell’ambiente e generale dei carabinieri, e porta la mano sul cuore mentre legge la formula del giuramento: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione». Mano sul petto anche per Alberto Bonisoli, ministro della cultura, mentre la ministra della pubblica amministrazione Giulia Bongiorno si batte il cuore solo quando legge «le mie funzioni».

Il salone delle feste del Quirinale si riempie dei dialetti del nord, con nove ministri lombardo-veneti su diciannove. Si riempie anche di parenti, che abitualmente sono quattro o cinque – perché abitualmente giurano da ministri politici un po’ più navigati – e stavolta sfiorano il centinaio. Mamme e papà emozionati, sembrerebbe anche qualche nonno, una bimba piccola, ovviamente la figlia del ministro della famiglia, il teo-con Lorenzo Fontana. Tra i parenti si infilano anche gli spin doctor, la portavoce di Salvini Iva Garibaldi in sfavillante rosso corallo e il capo della comunicazione Casaleggio-M5S Rocco Casalino, aria sicura e soddisfatta.

Salvini e Di Maio siedono nelle prime due sedie, il leghista a gambe larghe e con quattro dita di calzini a righe in mostra. Il grillino sempre sorridente, anche quando si abbottona la giacca nei due passi tra la poltrona e la scrivania dove giura. Salvini nel pronunciare la formula calca la parola «lealmente». La ministra della difesa Elisabetta Trenta, che durante il mandato da ministro di La Russa ha ricevuto senza concorso il grado di «capitano della riserva selezionata», alza il tono sulla parola «Giuro». Moavero Milanesi, ministro degli esteri, è l’unico che recita la formula a memoria. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte l’unico che firma con la penna sua, la stilografica delle grandi occasioni. Salvini segue un po’ distratto, ha l’aria di chi vorrebbe tirare fuori lo smartphone. Paolo Savona, 82enne, è l’unico che ha il coraggio di farlo davvero. Quando arriva il suo turno scambia un lungo sguardo diretto con Mattarella, poi il presidente gli indica gentile dove firmare. Seguono stretta di mano e auguri, come con tutti.

Tutti gli uomini hanno la camicia bianca e tutti l’abito grigio scuro, tranne Fraccaro, Salvini e Costa in blu. Cravatte serie serie, tranne Salvini, verde, e Savona, arancio. Gian Marco Centinaio, ministro dell’agricoltura, nel firmare scopre il braccialetto di «Salvini premier». Salvini, vicepremier, quello del Milan.

Quando tutti hanno giurato, Mattarella conduce Conte al centro della fila dei ministri. Si capisce allora perché Salvini e Di Maio sono stati fatti sedere di lato. Nella prima foto ufficiale il presidente del Consiglio non comparirà accerchiato dai suoi sorveglianti, ma dalle ministre Barbara Lezzi ed Erika Stefani. Pochi minuti dopo, però, attorno al tavolo del Consiglio dei ministri, a palazzo Chigi, Conte è già seduto tra Salvini e Di Maio da una parte e Giorgetti dall’altra. C’è tempo anche per un primo decreto: il primo atto del «governo del cambiamento» è una proroga. Era urgente.

Al Quirinale, terminate le foto, scatta l’applauso. Non si era mai visto, ma questa volta ci sono i parenti. I ministri adesso sorridono, mentre Di Maio non ha mai smesso di farlo, e socializzano avviandosi al brindisi. Alcuni si incontrano per la prima volta. Dureranno?

Sembrano chiederselo anche loro, mentre ricevono le prime istruzioni sui loro ministeri. Dovranno affidarsi agli uffici, ai dirigenti, alla burocrazia che ne ha viste tante. Salvini promette che entrerà al Viminale «senza la ramazza». Aveva del resto parlato di una ruspa, e rivolta altrove.
A palazzo Chigi, Gentiloni disinvolto, la cerimonia della campanella segna il passaggio di consegne tra i due governi. Per un «avvocato del popolo» che arriva c’è un Alfano che torna a fare l’avvocato e basta. Di Maio sostituirà Poletti, quel genio che a chi cercava lavoro consigliava di giocare a calcetto e non perdere tempo a mandare curriculum. Sbagliava, naturalmente. Come potrebbe spiegargli chi il curriculum l’ha mandato a Casaleggio. E adesso sta «scrivendo la storia».