Stupisce un po’ osservare oggi, nel campo della sinistra, la tiepidezza politica e soprattutto la flebile mobilitazione organizzativa che accompagna una rilevante iniziativa politica. Mi riferisco alla raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale, al fine di cancellare l’introduzione del principio di pareggio di bilancio nella nostra Costituzione. Si ricorderà che il 22 settembre 2014 un comitato promotore, composto da giuristi come Stefano Rodotà e Gaetano Azzariti, da Maurizio Landini, da parlamentari di Sel, Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, e del Pd, Pippo Civati e Stefano Fassina, ha depositato la proposta di legge in Cassazione.

Da allora, il dibattito su quel tema è stato languente e soprattutto non si è vista l’attivazione dei comitati per un ampio coinvolgimento dei cittadini. A fine gennaio Sel l’ha rilanciato a Milano, con il convegno Human Factor (perché in inglese, francamente, non si capisce), ma il fuoco della mobilitazione stenta ancora ad accendersi. Eppure si tratta di una iniziativa politica di prima grandezza, non dissimile per molti aspetti, dalla battaglia per l’acqua bene comune. Intanto per la potenziale ampiezza del consenso che essa può raccogliere.

Il fallimento delle politiche di austerità, la devastazione sociale e l’arretramento sul piano dei diritti che esse stanno generando in Europa appare sempre più evidente alla maggioranza dei cittadini. E le forze che sanno opporsi in maniera credibile alla stupida ferocia di questa politica, alla cultura che la sorregge, raccolgono consensi da ogni parte. Dicono qualcosa a tutti noi il successo di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Ma dovrebbe dirci qualcosa anche l’avanzata e la proliferazione delle formazioni di destra, che si alimentano di una politica antiausterità, anche se antieuropea. E’ evidente ormai che i governi in carica non rappresentano l’opinione pubblica dei paesi dell’Unione, si reggono sull’astensionismo di massa e sulla dispersione delle opposizioni.Ma togliere dalla Costituzione lo stupido sfregio del principio del pareggio di bilancio ha per noi un significato che va al di là del piano costituzionale e dei diritti. Quella norma, inserita il 20 aprile del 2012, rappresenta una scelta pianificata del declino italiano.

Una scelta che appare insensata già alla luce delle caratteristiche storiche del capitalismo italiano. Chi conosce le vicende della nostra industrializzazione sa quale ruolo strategico ha dovuto giocare la mano pubblica, non solo nell’imporre regole e istituzioni, ma nel supplire all’assenza di capitali di rischio in settori strategici per lo sviluppo del paese. E non si tratta solo delle antiche nostre debolezze. Oggi, dopo i colpi della crisi, viene imposta una riduzione sistematica della spesa pubblica che paralizza comuni e regioni, impedisce investimenti, riduce la produzione di ricchezza, deprime la domanda interna, trascina in un circolo vizioso l’intera macchina economica.

Limitare così pesantemente il ruolo economico dello stato in una società di capitalismo maturo denuncia una strategia di pianificata autoemarginazione dell’Italia e dell’Europa. Al confronto il modello Usa, da un punto di vista strettamente capitalistico, appare più lungimirante e avanzato. Come ha mostrato con dovizia documentaria Mariana Mazzuccato ne “Lo stato innovatore” ( Laterza), il potere pubblico gioca in quel paese un ruolo strategico di prima grandezza in investimenti nei quali il capitale privato non si avventura. Esso costituisce la vera avanguardia dell’innovazione tecnologica. Senza dire che lo stato americano ha continuato a investire generosamente in formazione e ricerca mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, si è marciato e si continua a marciare in senso contrario.

Ma che cosa dire, d’altronde, del modello di accumulazione originaria in atto in Cina da decenni, dove è lo stato che guida le danze? E potremmo fare un lungo elenco di paesi emergenti in cui lo sviluppo economico è promosso con intelligenza strategica dal potere pubblico. L’Europa no. E’ ossessionata dal debito, perché ragiona con l’animo strozzino dei banchieri tedeschi. Confida nel fatto che i conti in ordine attireranno investimenti dall’esterno e che la bassa domanda interna, dovuta a bassi salari e disoccupazione, sarà compensata dalle esportazioni.

Ma tutti i paesi del mondo sperano nelle esportazioni e schiacciano i propri lavoratori per poter competere tra di loro nel mercato mondiale, col risultato di ordine e prosperità generale che oggi è sotto gli occhi di tutti. Senza dire che paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, ecc i conti in ordine, con questo schema, non possono metterli, senza distruggere la società e alla fine gli stessi conti.

Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della Ue. Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E’ emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell’Unione le regole del Fiscal compact.

Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com’è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil – per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all’Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?

Dunque, l’Ue appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i Trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli Usa e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi.

L’Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell’età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto. Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione in questi ultimi giorni nello scontro che ha contrapposto il governo greco di Tsipras ai rappresentanti dell’Ue. Con un fuori programma che avrebbe dovuto trovare qualche voce politica capace di rivendicare la dignità degli stati sovrani. Vedere il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schäuble, ringhiare come fosse il padrone d’Europa, non è stato uno spettacolo edificante. Ma ancor meno edificante è stato vedere che nessun capo di stato o di governo ha osato ricordare al ministro che l’Unione ha i suoi organismi, in rappresentanza di ben 28 paesi.

In quelle trattative abbiamo visto non solo due idee di Europa, ma anche il muro che in Germania e a Bruxelles intendono tenere alto contro l’avvenire del nostro paese. Dopo l’approvazione del jobs act, la grancassa mediatica si è messa in moto e il capo dei prestigiatori italiani amplifica i suoi trucchi per rappresentarci le magnifiche sorti che ci attendono. Non lasciamoci abbacinare. I problemi sociali degli italiani resteranno gravi a lungo, anche se ci sarà qualche segno di ripresa economica. La mutilazione del ruolo dello stato imposta dal pareggio di bilancio è un macigno su cui Renzi non potrà danzare.