Ieri alla Camera si è consumato un tradimento: è stata approvata la proposta di riforma della legge quadro del 1991 sulle aree naturali protette, una legge straordinaria che ha portato la superficie protetta del nostro paese dal 2-3 % a oltre l’11 % dell’intero territorio e che ha messo in campo idee, professionalità, protagonismi, acceso entusiasmi e speranze.

Il tradimento viene da lontano: da quando l’idea di parco che quella legge aveva recepito e trasmesso – luogo dove la conservazione dell’ambiente e della biodiversità si coniuga con lo sviluppo in armonia con la natura – si è progressivamente banalizzata in direzione di una generica e uniforme visione economicistica, propagandata in termini di made in Italy e green economy e legata principalmente a un turismo di tipo gastronomico.

Il movimento ambientalista aveva manifestato unitariamente la sua contrarietà e presentato precise proposte puntualmente respinte.

Inutili sono stati i tanti emendamenti migliorativi dei parlamentari più sensibili; vana la loro azione coraggiosa, soprattutto di Serena Pellegrino, la deputata di Sinistra Italiana che ha fatto della bellezza la cifra del suo impegno parlamentare; senza risultato anche l’ultimo appello inviato da ben dodici tra le più importanti associazioni di protezione ambientale.

Quali le principali criticità?

Innanzi tutto il mutamento del quadro generale con l’introduzione di una visione strumentale delle aree protette: la conservazione della natura, che in tutto il pianeta costituisce il perno centrale attorno a cui tutto ruota, diventa mero strumento per realizzare altri obiettivi.

Emblematico è il nuovo «piano di sistema» che ha ottenuto l’unico finanziamento di una qualche consistenza (10 milioni di euro annui per tre anni) e che ha come obiettivo non la conservazione della biodiversità, ma il finanziamento di progetti per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici e per lo sviluppo della green economy, progetti perciò che non colgono la specificità delle aree protette, ma valgono per tutto il territorio.

Dirette conseguenze di questo mutamento sono la trasformazione degli enti parco nazionali in una sorta di enti locali, comunque in enti con forte impronta localistica, la dequalificazione degli organi e soprattutto del direttore (nominato dal presidente a seguito di una semplice selezione pubblica), l’introduzione degli interessi corporativi nei consigli direttivi e per contro la sostanziale soppressione dell’approccio scientifico alla gestione che costituisce uno degli aspetti più interessanti della legge quadro.

Si aggiungano: il disinteresse nei confronti delle aree marine protette che sono un vero tesoro italiano e per le quali associazioni e opposizioni avevano richiesto «pari dignità» con i parchi nazionali; l’introduzione delle royalties nel caso di opere e attività impattanti e cioè l’introduzione della logica perversa «se paghi puoi impattare» che diventa di particolare gravità nel caso delle trivellazioni; le tante omissioni.

Non viene ad esempio affrontata la vera causa della progressiva burocratizzazione dei parchi nazionali che è data dall’applicazione ad essi della stessa disciplina che regola gli enti con migliaia di dipendenti.

Non si chiarisce se e in che senso si possa parlare di dipendenza funzionale ora che la sorveglianza dei parchi è passata all’Arma dei Carabinieri.

Sono talmente gravi queste criticità che lasciano inevitabilmente in ombra gli aspetti positivi che pure non sono pochi: dall’annullamento del silenzio assenso per i nulla osta alla fissazione di scadenze precise in determinate procedure, alla previsione di un sistema fiscale agevolato.

La proposta torna ora al Senato dove si spera che vengano modificate le parti più negative o, ancor meglio, si apra una pausa di riflessione per un confronto con tutti gli interessati.

Altrimenti, se dovesse continuare questa corsa al cupio dissolvi, coloro che considerano la lotta per la conservazione della natura sempre più decisiva per il futuro di tutti riprenderanno con ferma determinazione il mare aperto.