Austerlitz di Loznitsa appena visto alla Mostra, film dalla forma perfetta, finestra sul consumo turistico dei visitatori nei campi di sterminio, materializzazione del passato e quasi funzione religiosa anche per le anime perdute dei contemporanei attraverso quelle riprese fisse, i rumori delle centinaia di passi e gli scatti dei cellulari, sembra aver messo un punto definitivo ai film sull’olocausto, come già sembrava avesse fatto Il figlio di Saul.

Così Paradise di Andrej Konchalovskij arriva come un’opera quasi fuori tempo, segnato dalla lunga serie dei film che lo hanno preceduto e che ci portano a fare classifiche e paragoni, pescare nella memoria il film più aderente alla natura del soggetto. Forse il pubblico ha bisogno solo di fotografare se stesso al cancello con la scritta «Arbeit macht frei» per dimostrare di essere arrivato fin lì, prova della sua esistenza in vita. Il nazismo è stato a lungo trattato dal cinema dei paesi dell’est come un genere che tendeva a parlare chiaramente del presente, della situazione di controllo capillare ed eliminazione della dissidenza, un sottotesto da tenere presente anche nel caso di Paradise che fin dal titolo parla della costruzione del paradiso in terra che non esisterebbe senza l’esistenza di un analogo inferno. La specialità di Konchalovskij è afferrare lo spettatore fin dalla prima scena e trasportarlo con un tocco travolgente sia che ci si trovi in una casa dei matti, o nella campagna della contadina Asja, nel parlatorio di una prigione e perfino quando intorno sembra esserci il nulla come nel più recenteThe Postmn’s White Nights. In Paradise ciò non avviene, il racconto e il tono sono algidi, anche quando irrompe nei personaggi fervore, ansia, attesa e delusione tutto in una volta. Ancora quel sottotesto ci viene in mente. Ci suggerisce di tenerci a distanza dall’intreccio, guardare oltre, ad esempio al presente, tempo di fondamentalismi da riconoscere e neutralizzare.

Il film racconta un aspetto comune della mente umana tendente al conformismo quotidiano anche se parla di tempi non così lontani da non averne ancora orrore. I tre protagonisti principali, uomini europei del secolo scorso (si parla nel film francese, tedesco, russo, yddish), sono persone la cui normalità confina con il male come il funzionario collaborazionista che si direbbe un sosia più in carne di Hitler, che timbra arresti e ordina torture nella tranquilla routine tra il déjouner e il dîner, il militare di nobile casata tedesca che ha perso tutto salvo la fede nel Fuhrer, inviato nei lager a controllare entrate e uscite di denaro intascato illecitamente, contro l’efficienza precisamente misurabile del massacro.

E poi l’aristocratica russa (la notevole Yuliya Vysotskaya, già in La casa dei matti) esiliata a Parigi che precipita nel vortice della storia. Ma non c’è scampo, oltre ai tribunali sulla terra esistono anche quelli celesti di fronte al quale ognuno è tenuto ad esporre colpe e attenuanti. In queste scene ultraterrene si fa ancora più notare la distanza dell’autore, come per prolungare il tempo della riflessione, perfino quando mette in scena stereotipi del genere perché siano riconoscibili.

«Penso che il tema dell’olocausto è stato così banalizzato, dice il regista, che oggi vedere 200 persone in pigiama a righe è come vedere il Nabucco: non volevo fare un film sull’olocausto ma sulla cattiveria, perché la natura umana è sempre cattiva, il male nasce ogni giorno e in ogni epoca.La gente fa il male pensando di fare il bene: Savonarola, Giovanna d’Arco, la seconda guerra mondiale, i bombardamenti in Iran, Iraq, Serbia sono stati considerati atti di democrazia e libertà». L’idea del film? «C’erano donne russe fuggite all’epoca del bolscevismo, diventate militanti dell’opposizione e della resistenza in Francia, che salvarono bambini ebrei, molte furono arrestate e molte di loro ottennero la legion d’onore».