Sopra, nella grande sala di Palazzo Barberini c’è un roboante cielo affrescato da Pietro da Cortona. Ad altezza d’uomo, c’è invece quel sipario dipinto da Pablo Picasso proprio a Roma nel 1917 per Parade, la rivoluzionaria messa in scena dei Balletti Russi di Djagilev. Una sintesi visiva che fa esplodere insieme diversi linguaggi – dalla danza fino alla pubblicità, la letteratura e, naturalmente, il circo.

Opera maestosa, destinata a fare da «ouverture» a uno degli spettacoli che cambiarono il modo di stare a teatro – quel Parade che sfruttò l’incontro di personalità irripetibili, l’impresario Djagilev, il poeta Apollinaire, lo scrittore Cocteau, il musicista Satie, il danzatore e coreografo Massine, oltre al pittore spagnolo (che a Roma finirà engagé con una ballerina russa della compagnia, Ol’ga Stepanivna Khochlova, divenuta poi sua moglie) – è anche una prima avvisaglia del ritorno imperioso al classicismo e dell’abbandono della furia iconoclasta di matrice cubista.

SE SI ESCLUDE l’affastellamento dei soggetti, la mescolanza dei punti di vista che rimane intatta, data per acquisita, Picasso in questo «rideau» – sorta di tenda dipinta che stava dietro al sipario vero e proprio del teatro – gioca con la finzione spaziale (è quasi una scatola prospettica) e congela un momento di riposo di alcuni saltimbanchi con i loro animali, attenendosi al canovaccio «cucito» da Cocteau per il balletto.
Vaga tra i miti, torna sui suoi Arlecchini e inserisce anche un souvenir di un recente viaggio a Pompei (sullo sfondo, ruderi romani e un vulcano), placando l’ansia che destrutturava ogni forma in una ricomposizione a tema, dal sapore incantato. Quasi il contrario di ciò che sarà poi, una volta aperto il vero sipario, l’adrenalinico balletto russo (che quando andò in scena al Théâtre du Châtelet di Parigi, il 18 maggio del 1917, suscitò l’ira del pubblico, tranne quella di uno spettatore: Marcel Proust).

Grande circa 16 metri per 11, esposto già a Napoli prima della tappa romana, quel Parade dipinto fa da biglietto da visita alla mostra presso le Scuderie del Quirinale Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925, dove si raccolgono un centinaio di capolavori, scelti dal curatore Olivier Berggruen, in collaborazione con Anunciata von Liechtenstein.

L’ICONOGRAFIA è molto particolare: Picasso usa gli attrezzi circensi – dalla sfera alla scala – per arrampicarsi verso mondi sconosciuti, così come la Scala paradisi fin dall’epoca bizantina illustrava l’ascesa delle anime e il progredire spirituale. Ma il malagueño, abituato a una stretta frequentazione con acrobati e gente da fiera, inverte la marcia e piazza alla sommità dei pioli una scimmia, imago diaboli.
C’è anche l’amato Arlecchino a fare da spartiacque, d’altronde era lui un tempo il guardiano del regno dei morti. Il suo è un sogno a occhi aperti pronto a trasformarsi in un incubo, raccontando l’eterna lotta tra il bene e il male, da cui gli artisti si tirano fuori.