Nell’ultimo catalogo della Libreria Antiquaria Pontremoli di Milano è presente uno dei rarissimi esemplari intonsi dei Canti Orfici di Dino Campana nella leggendaria edizione stampata a Marradi, presso la Tipografia Ravagli, nel 1914. Il libro, considerato dall’autore «la sola giustificazione della mia esistenza», come scrisse in una lettera a Cecchi, è diventato uno dei più ricercati del Novecento, con quotazioni che si aggirano intorno ai diecimila euro. Ed è paradossale il fatto che quel volumetto in apparenza dimesso, modesto, quasi francescano, privo di alcun vezzo tipografico e sovrabbondante di refusi, venduto dallo stesso autore, alla stregua di un colporteur, agli avventori delle Giubbe Rosse o del Paszkowski di Firenze, fosse all’epoca un titolo snobbato unanimemente, tanto che, in uno dei colloqui manicomiali con Pariani, Campana asseriva, tra una farneticazione e l’altra sugli effetti dell’elettromagnetismo, che «Il mercato librario è assolutamente nullo per il mio genere».
Molti aneddoti sono nati intorno a quel libro mitico, il solo che Campana sia riuscito a scrivere, in condizioni a dir poco proibitive, a cominciare dalla consegna degli esemplari privi della dedica «a Guglielmo II imperatore dei germani» e del sottotitolo Die Tragödie des letzen Germanen in Italien (sembra che a Marinetti il poeta abbia consegnato un libercolo squinternato, monco di quasi tutte le pagine). Arriverà a incollare pecette e striscioline di carta nei punti potenzialmente critici, in quanto convinto che la polizia si stesse interessando al suo caso. In una lettera a Soffici si giustificherà così: «Ma sì, è stato il dottore, il farmacista, il prete, l’ufficiale della posta, tutti quegli idioti di Marradi, che ogni sera al caffè facevano quei discorsi da ignoranti e da scemi. Tedescofobi, francofili, massoni e gesuiti, dicevan tutti e sempre le stesse cose: e il Kaiser assassino, e le mani dei bimbi tagliate, e la sorella latina, e la guerra antimilitarista. Nessuno capiva nulla. Mi fecero andare in bestia; e dopo averli trattati di cretini e di vigliacchi, stampai la dedica e il resto per finirli di esasperare».
È significativo il fatto che Roberto Maini e Piero Scapecchi nel 2014 abbiano pubblicato, presso le Edizioni Gonnelli, L’avventura dei «Canti Orfici»: un libro tra storia e mito, in cui vengono ricostruite le vicissitudini di questo titolo, ricche di episodi singolari (si pensi alla copia arricchita dalla trascrizione di una lunga poesia autografa, originariamente appartenuta a Julien Luchaire e poi rilevata dal collezionista Beppe Manzitti, casualmente scampata al poco edificante autodafé rappresentato da un cassonetto dei rifiuti parigino) e del censimento dei 111 esemplari esistenti, di cui 31 con dedica autografa dell’autore. Già nel 1928, dalle pagine della «Fiera Letteraria», Sergio Solmi rilevava: «L’aura di follia spirava attraverso le pagine del libro, illuminandovi panorami febbrili, gorghi di parole ossessionate e scampananti, assieme a riuscite mirabili, a colorite prospettive quasi sospese in un clima di musica soavissima e struggente, a invocazioni d’un disperato sapore umano».
Gianni Turchetta licenzia ora per Bompiani Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta («I grandi tascabili», pp. 456, € 18,00), sorta di biografia sui generis che riprende e amplia le precedenti versioni presentate da Marcos y Marcos nel 1985 e, in forma rivista e aggiornata, da Feltrinelli nel 2003 con il titolo Dino Campana, biografia di un poeta (Turchetta curò inoltre nell’89, sempre per Marcos y Marcos, un’edizione dei Canti Orfici). Il numero di pagine risulta raddoppiato rispetto alla lezione primigenia e il nuovo libro tiene inevitabilmente conto delle numerose acquisizioni e scoperte operate nel frattempo, sia in ambito documentario che filologico.
L’intento di Turchetta è quello di cercare di sgombrare il campo dalle molte interpolazioni riguardanti la leggenda del «poeta pazzo», del «mat Campèna», affidandosi ai documenti venuti alla luce in questi ultimi decenni da parte di un manipolo agguerrito di specialisti: oltre all’indimenticabile opera del compianto Gabriel Cacho Millet menzioniamo i contributi di Stefano Drei, Enrico Gurioli, Paolo Maccari, Franco Scalini e altri. Nel caso di Campana sembra che biografia e opera si intreccino indissolubilmente in un viluppo dal quale non sempre si è in grado di distinguere tra aneddoto gratuito e notizia documentata. Ruggero Jacobbi rilevava «una radicale e finale coincidenza, per lui, della poesia con la vita».
Viene offerta da Turchetta una lettura in controtendenza rispetto ai canoni un po’ abusati di certa critica, mettendo in rilievo come i Canti Orfici, nonostante siano nati da «una vita piena di dolore, di disordine, di angoscia», rappresentino al tempo stesso un’opportunità di rivalsa, in cui felicità inventiva e innegabili approdi stilistici, derivanti da un inesausto fervore artigianale, riescono a riscattare un retaggio esistenziale apparentemente in perdita: «Così, se c’è un senso ultimo che possiamo trarre da tale storia, e io credo che ci sia, non sta tanto nel suo dolore, quanto in tutto ciò che a questo dolore si oppone, che lo supera e lo vince: sta nella sua poesia». Il ruolo di critico si accompagna a quello di biografo, in una sorta di arguto gioco di rimandi teso a valorizzare l’opera di Campana, spesso irretita in quelle «trappole mitizzanti» che sfociano nello stereotipo, nella banalizzazione di una figura complessa e difficilmente inquadrabile in virtù della sua univocità: «Naturalmente però, oltre alle zone “alte” del mito, a quelle più letterate e più colte, oltre che criticamente più interessanti, ci sono le solite narrazioni aneddotiche e pittoresche: risse più o meno ridolinianamente iperboliche, inseguimenti e vetri rotti, interventi di poliziotti e di soldati, Campana furente che “come un toro inferocito” si lancia contro gruppi di fantomatici persecutori mettendoli in fuga».
In tale temperie rievocante le celebri scazzottate futuriste (alcuni versi apparvero su «Lacerba», oltre che sulla «Voce»), Turchetta ripercorre, tappa dopo tappa, le vicende biografiche di Campana: dal problematico rapporto con la madre nell’abominevole spelonca di Marradi alla dromomania congenita che portò il poeta nei luoghi più inimmaginabili (oltre all’Argentina si è favoleggiato intorno a un viaggio a Odessa al seguito di un gruppo di acrobati bossiaki), dai reiterati arresti e reclusioni in manicomio alle innumerevoli letture (Whitman, Nietzsche, Poe, i simbolisti francesi), dallo smarrimento da parte di Papini e Soffici del manoscritto del Più lungo giorno, ritrovato ufficialmente dalla figlia di quest’ultimo nel 1971, alla nuova stesura basata sugli appunti preparatorî del testo perduto, «cover’d with the boy’s blood». Si arriva così al rapporto controverso con Sibilla Aleramo, da cui venne ricavato un film che non sarà ricordato negli annali della storia del cinema (con relativa proposta, ahimè, dell’epistolario «amoroso» da parte di Feltrinelli: come associare la morte al fucsia…). Infine, souvenir d’un pendu, l’internamento nel manicomio di Castel Pulci, dove «l’uomo dei boschi», come si autodefiniva, si trasforma in «medium magnetico» che prevede i terremoti («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison»), nel periodo che va dalla primavera del 1918 al giorno della prematura scomparsa, avvenuta il 1° marzo 1932 a causa di una setticemia contratta per essersi punto con del filo spinato.
L’autore ha ormai rinnegato il proprio universo poetico, tanto da considerare con sufficienza la ristampa dei Canti Orfici effettuata nel 1928 da Vallecchi, a cura di Bino Binazzi. Non si sente più un perseguitato, anche se vive la propria dissociazione in una dimensione rarefatta, quasi ultraterrena, una sorta di limbo dominato da quell’«assenza d’opera» di cui parla Foucault a proposito di Artaud, ma dal quale, se non altro, è bandito il mondo gretto dei Papini e dei Soffici (non preoccupatevi, esistono tuttora, hanno solo cambiato nome, come i revenants) che non esiteranno, dopo la sua morte, a comporre il panegirico del «poeta folle» fingendo di esserne stati i mentori. Da alcune testimonianze riportate dallo stesso Turchetta, sembrerebbe che il manoscritto del Più lungo giorno fosse stato visto sulla scrivania di Soffici parecchi anni prima rispetto alla data del suo ritrovamento «ufficiale». Non resta che chiedersi: quali erano i veri pazzi? Non aveva ragione il «mat Campèna» quando scriveva: «Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili»?