Nel singolare curriculum di Taika Waititi, 44enne regista neozelandese, c’è posto per pellicole indie come Boy e Selvaggi in fuga, «dramedies» dal registro eccentrico che rimandano a Wes Anderson e a Napoleon Dynamite, ma anche per la regia di Thor: Ragnarok il kolossal Marvel sul Dio del tuono. Alla carriera di autore originale, Waititi abbina insomma un’incarnazione nerd che gli è valsa anche una collaborazione con la Lucasfilm sulla prossima serie Mandalorian, ultimo «spinoff» in streaming di Guerre Stellari.

MA WAITITI nasce come esponente della generazione nuovi comici degli antipodi, sodale ad esempio di Jermaine Clement (Flight of the Conchords) con cui ha scritto l’esilarante What we do in the Shadows su un gruppo di vampiri sfigati che dividono una casa in affitto a Wellington e le nevrosi urbane da trentenni hispter.
Ora il suo Jojo Rabbit si è portato a casa il premio del pubblico di Toronto, l’unica onorificenza di rilievo del Tiff, il festival più democratico ma anche più cruciale per le sorti commerciali dei film d’autunno. L’onore era stato prefigurato dall’ovazione ricevuta la scorsa settimana alla prima proiezione all’Elgin Theater, alla presenza del cast, Rebel Wilson, Scarlett Johansson, Roman Griffin Davis e lo stesso Waititi che fa la parte di un Adolf Hitler dall’improbabile accento Kiwi, visibile solo a JoJo il bambino di 12 anni che è il protagonista (davvero straordinario) del film, subito apparso come uno degli oggetti interessanti del festival.

LA STORIA di un bambino che vive in un villaggio tedesco sotto Terzo Reich, Jojo Rabbit si addentra sul campo minato della «commedia nazista» ed ha puntualmente suscitato polemiche, inevitabili quanto sterili. Nella prima parte il film segue principalmente le disavventure di Jojo negli addestramenti della Hitlerjugend. Schivo e maldestro Jojo fa del suo meglio per dimostrare l’adeguato livello di dedizione alla superiore razza ariana impartite dal capo truppa, capitano Klenzendorf (Sam Rockwell), ma subisce continue umiliazione e il bullismo dei compagni. Confida lo sconforto e il senso di inadeguatezza solo all’amico immaginario: un Hitler vanesio e ridicolo che lo sprona ad assorbire un fanatismo adeguatamente patriottico. Le camicie brune somigliano a boy scout un po’ sfigati in improbabile addestramento per diventare provetti guerrieri ariani e le maldestre operazioni da Sturmtruppen nei campeggi della Hitlerjugend hanno il sapore di una satira un po’ farsesca nel registro delle precedenti commedie di Waititi

La storia assume spessore col rapporto di Jojo con sua madre (Scarlett Johansson) uno spirito libero che in assenza del padre (ufficialmente al fronte a combattere eroicamente per il Führer) tenta di controbilanciare l’indottrinamento nazionalsocialista con amore e l’esortazione a non prendere troppo sul serio la propaganda. La comicità si complica quando Jojo scopre l’esistenza di una ragazza ebrea che la madre ha nascosto nella soffitta di casa per proteggerla dai rastrellamenti della Gestapo e la deportazione della famiglia. L’orrore per la presenza della «giudea demoniaca» (l’antisemitismo imparato è quello grottesco del villaggio di Borat) si andrà tramutando in curiosità e inevitabilmente in qualcosa di più col trascorrere del film.

FUORI INTANTO la guerra si fa più vicina al villaggio e il registro del film diventa più complesso, incupendosi notevolmente. Il coraggio di esplorare fino in fondo le implicazioni più sinistre del mondo di Jojo – molto oltre comunque di quello che farebbe presagire la prima metà – spinge il film oltre i limiti della farsa comica, verso una parabola sui populismi e i nazionalsocialismi di oggi. E, come ha detto Cameron Bailey, direttore artistico del Tiff nella sua presentazione di Toronto, attualizza il film sull’educazione all’odio tornata così disinvoltamente in auge da Charlottesville a Pontida.