Fissata la data del referendum costituzionale, il prossimo 4 dicembre, è difficile sostenere che non debba scattare subito la legge sulla par condicio.

È necessario che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e la Commissione parlamentare di vigilanza adottino i provvedimenti del caso, vale a dire gli appositi regolamenti.

È evidente che siamo ormai in una campagna elettorale permanente, nella quale con la scusa dell’attesa dell’inizio formale del periodo protetto tutte le vacche sono nere.

La costante presenza del presidente del consiglio Renzi (e della ministra Boschi) nell’informazione radiotelevisiva «trainata» dalle notizie giornaliere rappresenta una vera e propria anomalia. Il referendum «oppositivo» (così scrive la dottrina) è assai diverso dalle scadenze politiche ed amministrative, nonché dagli stessi referendum abrogativi.

Infatti, il dibattito pubblico ha modalità temporali uniche, per la lunghezza inevitabile del confronto parlamentare e per il periodo non breve che può prendersi il consiglio dei ministri per decidere la data. Solo alla fine del percorso arriva la legge 28 del 2000, dopo la convocazione dei comizi. Quando il clima di opinione si è formato sulla base del tam tam mediatico.

In tale quadro, poi, si inserisce il quesito che troveremo nella scheda, a sua volta un bell’esempio di manipolazione. Se quelle frasi fossero state il contenuto di uno spot da trasmettere, l’Istituto di autodisciplina non l’avrebbe permesso: in quanto pubblicità ingannevole.

Quindi, serve una rigorosa autoregolamentazione, sulla base di indirizzi impegnativi delle autorità competenti. E, per l’intanto, i rappresentanti dell’esecutivo si astengano dal partecipare ai programmi o ai talk, se non per gli argomenti di stretta competenza.

Il servizio pubblico potrebbe, poi, istituire apposite tribune per far conoscere i temi della consultazione, visto che la scarsa conoscenza del quesito prefigura un vasto astensionismo. Del resto, tra non molto la Rai dovrebbe vedersi confermata la concessione statale, ma i galloni vanno conquistati sul campo. Tra l’altro, l’ascolto continua a diminuire e la rete ammiraglia è in grande affanno. Forse, il troppo stroppia.

Sulla vicenda referendaria si gioca anche la natura pubblica dell’azienda, che trae la sua identità proprio dalla tutela dell’imparzialità e del pluralismo. Obblighi comuni a tutti gli operatori, ma di specifico contenuto per la Rai, come sottolineano nella nuova edizione del volume dedicato al diritto dell’informazione e della comunicazione di Roberto Zaccaria, Alessandra Valastro ed Enrico Albanesi (2016).

Certamente, il dovere generale vale pure per il settore privato. Attenzione, però. Le cose stanno cambiando a Mediaset, aziende di Berlusconi ma allineate più a Renzi che al patron sul referendum. Basti seguire il Tg5 o cogliere il segnale non casuale dell’ospitalità di «Quarta colonna» offerta al presidente del consiglio proprio la sera della decisione sulla data.

La spiegazione sta verosimilmente nelle difficoltà del gruppo. La crisi della pay alle prese con il negoziato duro con Bolloré-Vivendi e le incertezze strategiche causate dalla crisi del modello di business della televisione generalista rendono le imprese berlusconiane piuttosto fragili. Bisognose di un buon vicinato con il governo e di un ulteriore «patto del Nazareno».

Il «no» di Brunetta rischia di stemperarsi via via che prende il sopravvento il partito-azienda. Insomma, il declino fa brutti scherzi e il referendum diventa una preziosa moneta di scambio.