I telespettatori di una certa età non possono aver dimenticato la fisionomia di Claudio G. Fava (1929-2014) cui era affidata negli anni settanta e ottanta la presentazione in video di cicli cinematografici che egli curava in prima persona, da Luis Buñuel al western, da Fellini al noir francese di cui era un tenace partigiano, per quanto potesse esserlo una persona tanto raffinata e affabile. Pacato, chiaro nell’esposizione pure attraversata dal brivido costante del dubbio come dai moti dell’erudizione, una punta di ironia nel sorriso e il papillon sulla immancabile grisaglia, quel porgere così elegante e inconsueto somigliava alla scrittura di colui che fu uno dei più originali critici cinematografici del proprio tempo. E fu a suo modo un antesignano del giornalismo di settore (dal ’59, per decenni) sulle colonne del Corriere Mercantile, antica testata genovese per cui approntò a cadenza settimanale non solo una pagina specializzata ma inventò la schedatura e la recensione sistematica dei film con tanto di valutazione in simboli grafici.
Nel suo lascito imponente e disperso di pagine scritte si assommano non solo gli interventi sul quotidiano e su riviste ma il lavoro di base (nei cineclub genovesi, nel circolo aziendale dell’Italsider) condensato negli opuscoli monografici poi riuniti da Fava in quello che per molto tempo è rimasto il suo unico volume a stampa, Le camere di Lafayette (La rassegna editrice 1979), un titolo dove si condensa la dichiarazione di poetica di uno spettatore innamorato contemporaneamente del cinema francese e di quello americano. (E il suo regista non per caso era Jean-Pierre Melville, autore di almeno due capolavori, L’armée des ombres e Le cercle rouge, nel cui cinema Fava vedeva non soltanto un suo doppio – particolarmente dotto e spiritoso – al lavoro, ma anche animarsi la fusione topografica di Parigi e New York – una specie di «Melvilleland» reinventata dal vero, tant’è che aveva intitolato Un americano a Parigi il ciclo monografico messo allora in onda da Rai2: in proposito, è accessibile in rete la sua bellissima intervista su Melville, Le cercle rouge e dintorni, rilasciata nel 2006 a Laura Chiotasso e Edoardo Tallone).
Nell’ultimo decennio Fava aveva raccolto una piccola parte della sua produzione in Guerra in cento film (Le Mani 2010) e seguìto, sia pure da lontano, l’antologia dei suoi scritti militanti di cui ora esce, nella cura puntuale di Nuccio Lodato, il primo dei due volumi progettati, Il mio cinema Da Aldrich a Kubrick (Falsopiano, pp. 318, € 20,00). Si tratta di una selezione scandita dall’ordine alfabetico dei registi, dove emergono d’acchito, anche dalle pagine più occasionali, i tratti che caratterizzano il profilo di Fava al di là delle sue predilezioni e ripulse, nel qual caso da una parte Huston, Rossellini, De Sica e Hitchcock (agli ultimi due sono riservati cospicui glossari tematici), dall’altra diversi italiani della generazione tellurica come Bellocchio o Bertolucci, candidamente ignorati.
Colpisce intanto la memoria visiva che feconda la pagina, un acume filologico da non confondersi con la superstizione e il fanatismo dei cinefili, tanto più (e qui si veda il suo delizioso libretto Clandestino in galleria, Le Mani 2003) che Fava si colloca agli antipodi del fondamentalismo cinéphile, volentieri rammentando che il Cineclub, tipica istituzione del nostro dopoguerra, è in realtà una diretta filiazione del Cineguf fascista. Conosce ab origine il lavoro dei «Cahiers du cinéma» ma non ne trae alcuna metafisica, è legato alla nozione di autore ma non dimentica che il cinema è comunque un combinato, a dosi variabili, di inventiva originale e di spettacolo convenzionale e perciò di quel vivaio ama più Truffaut che non (il peraltro rispettato) Godard, cui riconosce una autentica «vocazione visuale».
Un suo secondo tratto distintivo è la qualità della scrittura dove la non chalance con cui prodiga la propria dottrina (Fava non esibisce mai la citazione, piuttosto la dissimula o la suggerisce) si accompagna alla sostanziale compostezza di un passo veloce, sapido di immagini, e però controllato anche nei passaggi estemporanei. Terza e decisiva caratteristica è la sua capacità di formulare aforismi dove si condensi un giudizio propriamente critico, ed eccone un breve florilegio: Woody Allen «pieno di talento anche se non privo di una sua ingegnosa dote di banalità scaltramente strumentalizzata»; Il lungo addio di Altman con «la stupenda apparizione hemingwayana del risorto Sterling Hayden»; Buñuel «narratore verista magicamente irto di simboli»; un controverso Chabrol che fa pensare alla «succulenta brevità di certe novelle di Maupassant»; l’ineffabile Leopoldo Trieste incorniciato nel cameo del Padrino-parte seconda, «una figuretta stralunata, da strappare applausi a scena aperta»; il vecchio Mario Camerini «nostro piccolo e non amaro Lubitsch prebellico e autarchico»; infine Fellini (oggetto di una sua monografia, I film di Federico Fellini, Gremese 1981) nella sapiente e affabile, se così si può definire, stroncatura di Amarcord, «un falso felliniano di altissima classe, di un falsario che abbia praticato lo stesso talento del Maestro prima di copiarlo».
Cronologicamente, la vicenda di Fava si compie nella fase di maturazione della critica cinematografica italiana, successiva all’età dei pionieri che a destra corrisponde al nome di Luigi Chiarini e a sinistra di Guido Aristarco, fondatore di «Cinema nuovo» con l’indimenticabile, e ottimo scrittore, Renzo Renzi: è infatti nel trapasso fra gli anni sessanta e i settanta che oltre ai recensori dei quotidiani e dei principali periodici (tra gli altri Pietro Bianchi del Giorno, Ugo Casiraghi dell’Unità, Giovanni Grazzini del Corriere della Sera, Callisto Cosulich di Paese Sera, Gian Luigi Rondi del Tempo, Tullio Kezich di «Panorama») si affermano su riviste specializzate e/o militanti dei saggisti, per citarne solo alcuni, quali Edoardo Bruno, Adriano Aprà, Adelio Ferrero (fra i maggiori studiosi di Godard e Pasolini), Francesco Savio (di cui è degno testimone Il mondo di Francesco Savio. Recensioni 1973-1976, a cura di Franco Cordelli e Emidio Greco, Falsopiano 2003), Goffredo Fofi (il cui libro cruciale e sovversivo, Cinema italiano. Servi e padroni, esce da Feltrinelli già nel ’71) e un fuoriclasse giovanissimo e troppo presto mancato, Enzo Ungari, il cui Schermo delle mie brame esce nel 1978.
Fra tutti costoro, scrive Lodato, Fava mantiene una posizione di indipendente e persino di critico démodé (riguardo a un cinema francese che oramai è dentro la parabola occidua) ma i suoi interventi spiccano per la puntualità e uno humor che è la vera e propria cifra del suo stile: i telespettatori ne ricorderanno anche la presenza, nel pieno degli anni novanta, a Perdenti e ad altre intelligenti trasmissioni della Rai scritte dal critico cinematografico Oreste De Fornari e da una conduttrice della classe di Gloria De Antoni. Avrebbe potuto essere anche un critico letterario, Claudio G. Fava, e basterebbero le pagine sull’anti-melvilliano per antonomasia (nel collettivo Simenon, l’uomo nudo, L’ancora del Mediterraneo 2004), quando scrive di avere amato il personaggio di Maigret proprio perché «privo di illusioni ma consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri, rispettoso della legge e dell’ordine, temerato e intemerato». Questo, neanche a dirlo, era il suo autoritratto.