Dopo Prince, Papa Wemba. Un’altra morte sul lavoro, si direbbe con humor malriposto. Fatto sta che il primo, noto workaholic, secondo indiscrezioni trapelate dopo i funerali, quando si è sentito male lavorava senza sosta da oltre 150 ore. Il secondo invece è stramazzato a terra durante un concerto al Festival des Musiques Urbaines de Anoumabo, in Costa d’Avorio. Aveva 66 anni. Subito sospesa, la rassegna che prende il nome dall’omonimo quartiere di Abidjan riapre e chiude idealmente mercoledì 27, con una veglia in forma di mega-concerto. In omaggio all’artista che era sbrigativamente noto come il «re della rumba congolese».

L’unico parallelo possibile sta nel modo in cui entrambi sapevano utilizzare il corpo come prolungamento della voce – nel caso di Wemba un vero portento – e non viceversa; di come lo facessero in modo politicamente glamour; di come ci riuscissero senza distrarre energie dall’infinita ambizione del loro fare musica.

Papa Wemba in effetti è stato anche iniziatore e principale ideologo della Société des Ambianceurs et des Personnes Elégantes (da cui l’acronimo Sape e la qualifica di sapeur), un movimento giovanile degli anni ’70 che si voleva liquidare come dandysmo surreale, una delle tante follie nate dall’impatto della società dei consumi occidentale su fragili sistemi valoriali. Quanto fosse piuttosto un’eclatante rivolta sociale, l’idealizzazione del ben vestire opposta a un destino certo di disperata povertà, divenne evidente più tardi, al culmine del fenomeno Sape e della carriera di Wemba, negli anni ’80. Lui diceva di voler evitare la politica, ma l’estro sartoriale che reinventava in loco le pagine di Vogue Uomo si opponeva come niente altro al grigiore delle forme che in fondo la presunta Autenticité di Mobutu proponeva. Autorevoli saggi paragoneranno quei ragazzi e la loro ricerca delle libertà nelle griffe dell’alta moda europea con i giovani che ballavano boogie woogie nella Francia sotto occupazione nazista, per i quali la musica americana era già un anticipo di liberazione.

In Congo una cosa è certa, i giovani non avevano bisogno di andarsela a cercare altrove la musica giusta. Tanto più che Papa Wemba metabolizzava di tutto senza perdere un filo di aderenza al processo iniziato già negli anni Cinquanta, la riambientazione dei ritmi afro-cubani che con lui vive nuove aperture e nuovi agganci, innesti rock, l’elettricità indemoniata del soukous urbano e una maniacale cura degli impasti vocali che è figlia della tradizione polifonica e delle liturgie sincretiche.

Anche i figli del dittatore non avevano dubbi, tra lui o i grandi maestri della scena congolese, Franco e Tabu Ley, più graditi al padre. Alla fine degli anni ’60 Wemba si fa chiamare Jules Presley e crea Zaiko Langa Langa, il cambio generazionale che inonderà l’Africa nei decenni a venire comincia a trovare il suo suono. Verranno l’orchestra Viva la Musica e la consacrazione internazionale. La voce di Papa Wemba sarà risucchiata dalla macchina di nuove consapevolezze mondialiste orchestrata da Peter Gabriel, la qual cosa voleva dire stare nel cartellone delle principali edizioni internazionali del festival Womad e in bella vista nel catalogo Real World.

Papa Wemba riempie gli stadi e si fa sentire in Francia (clamoroso il concerto a Bercy del capodanno 2001) come in Giappone, con un “prodotto” vendibile sul nuovo mercato della cosiddetta world music che però può ancora funzionare nei peggiori bar di Kinshasa. Questa dimensione allargata ma non alienata segna la differenza da personaggi come Warrason e Koffi Olomide, amati in patria tanto quanto, ma poco più che sconosciuti nel resto del mondo. Papa Wemba lascia sei figli e due acerrimi rivali: loro.

In sospeso ci sarebbe anche la faccenda per cui un tribunale francese anni fa ha condannato l'”usignolo” della rumba congolese per «traffico di clandestini», scoperchiando un sistema molto diffuso che utilizza le tournée per far viaggiare persone non necessariamente alle dipendenze dell’artista. E non necessariamente trattasi di passaggio gratuito. Per lui era solo un «gesto umanitario». E immaginiamo politico, come il sogno ultra fashion della Sape. Stavolta contro la Fortezza Europa.

Quando nel giugno del 1949 Jules Shungu Wembadio Pene Kikumba nasce nel sud di quello che sarebbe stato ancora per una decina d’anni il Congo Belga, sua madre svolgeva mansioni di prefica, una cantrice assoldata per le veglie funebri. Quanto di quella empatica vibrazione dolorante sia stato travasato nel suo modo di cantare lo raccontano anche le sue canzoni più avventurose.

Con l’arte di Papa Wemba, unisono di apparenza e sostanza, si entra dalla porta principale nella storia sociale del grande e grandemente tormentato ex Zaire, attuale Repubblica democratica del Congo. Con annessi e connessi che vanno oltre la musica e alla musica continuamente riconducono. Si prenda come riferimento il numero di citazioni che Papa Wemba si conquista nella ricostruzione delle intricate vicende congolesi – dal “capriccio” di Leopoldo II all’odierno regno di Kabila Jr.  – tentata da David van Reybrouck nel monumentale Congo.

La notizia della scomparsa di Papa Wemba su abbatte su una Kinshasa già scombussolata dall’asprezza del conflitto politico, in vista delle elezioni che dovrebbero confermare Kabila figlio alla guida del paese, ben oltre il limite inizialmente previsto dalla Costituzione. Dopo il rientro in patria, nel 2004, a Papa Wemba non sono mancate occasioni di brindisi perniciosi con un presidente sempre più controverso. E questo racconta di un’altra tradizione locale, l’ingerenza della politica sulla musica. Ovvero viceversa, visto il potere di spostare consensi, di muovere i corpi e far ballare le anime che la musica ha mantenuto. Almeno in Congo, almeno quando a cantare è Papa Wemba.