È un popolo perseguitato. Senza altre definizioni Papa Francesco, per la prima volta, riconosce la minoranza uigura vittima di violenze fisiche e psicologiche per mano di Pechino. Con una frase presente nel suo nuovo libro “Ritorniamo a sognare”, in uscita il prossimo dicembre, il pontefice rompe il silenzio dopo anni di denunce mosse dalle organizzazioni per la tutela dei diritti umani e dai Paesi stranieri sulle oppressioni del Pcc nei confronti della minoranza di etnia turcofona.

Papa Francesco però non ha fatto riferimento solo agli uiguri, ma ha menzionato altri esempi di popoli oppressi, come i rohingya e gli yazidi, due etnie colpite da atti riconducibili al genocidio. Il pontefice, tuttavia, non ha presentato dettagliatamente nel testo quali siano le misure e provvedimenti attuati da Pechino per cui le minoranze musulmane sono vittime di una campagna di repressione e detenzione.
Ma una riga, all’interno di testo di oltre un centinaio di pagine, diventa significativa se si considerano le posizione della Santa Sede sulla Cina.

A pesare sui rapporti tra Vaticano e Pechino, interrotti ufficialmente nel 1951, è l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi rinnovato lo scorso ottobre per altri due anni, dopo un biennio in cui i contenuti dell’intesa sono rimasti segreti. Il segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, d’altronde sostiene che l’accordo non riguarda le relazioni diplomatiche bilaterali.

Ciononostante, il riferimento nel testo del pontefice non è piaciuto alla Cina, che ha giudicato le parole del Santo Padre prive di fondamento. Affermazioni di questo genere non sono straordinarie: Pechino ha sempre espresso l’efficacia della campagna di formazione professionale, volta a debellare dalla regione cinese l’estremismo religioso di matrice islamica.

A contraddire la versione di Pechino sono però le diverse testimonianze di uiguri detenuti in centri di rieducazione, dove sono stati sottoposti a indottrinamento, lavori forzati, abusi fisici e sterilizzazione forzata. Il tasso di natalità nello Xinjiang è infatti diminuito notevolmente negli ultimi anni, con una riduzione delle nascite di quasi un terzo nel 2018 rispetto all’anno precedente. Le accuse di sterilizzazioni forzate e genocidio sono rafforzate anche dal dipartimento di Stato degli Stati uniti, che denuncia la detenzione di oltre due milioni di uiguri su 12 milioni presenti nella regione nord occidentale cinese.

Ma anche un rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute, pubblicato lo scorso settembre, afferma che la Cina nell’ultimo anno ha continuato a investire nei campi di detenzione nello Xinjiang che, secondo le autorità locali, sono destinate a fornire formazione professionale. Inoltre la campagna culturale, che prevede un trasferimento coatto nello Xinjiang della popolazione han, la maggioranza dei cinesi, e un controllo tecnologico pervasivo, mira a sinizzare la regione.