Che nesso potrà mai esserci tra un verbo dall’apparenza banale come ‘avere’ e la complessa natura dell’animale umano? Alla seconda tappa del suo percorso di antropologia linguistica, iniziato nel 2013 con un saggio sulla negazione (Boringhieri) – che esprime le fratture intriseche al linguaggio – Paolo Virno sostiene nel libro appena uscito, Avere Sulla natura dell’animale loquace (Bollati Boringhieri, pp. 208, € 15,00) che l’uomo è il vivente che ha – e non è — la sua essenza. Se nel saggio sulla negazione era la parolina non a fare da utensile per l’indagine sulla natura ambivalente e pericolosa dell’animale umano, qui il viatico è il verbo avere, legato alla negazione come il concavo al convesso.

Definire l’animale umano come colui che ha la sua essenza e le sue esperienze biografiche non va considerata una mossa di poco conto. Non si tratta soltanto di dare una risposta diversa alla tradizionale domanda filosofica sull’essenza, ma di un nuovo modo di porre la domanda, che traccia strade inedite alla riflessione antropologica e consente di ripensare una serie di nozioni e opposizioni che hanno nutrito il pensiero occidentale: corpo/spirito; coscienza/autocoscienza; amico/nemico; res cogitans/res extensa; ideale/reale; analitico/sintetico; immanenza/trascendenza, tra le altre.

Dal cosa al come si ha
Ora, cosa rende il verbo avere così potente da farne una lente in grado di mettere a fuoco la complessità della natura umana? Diversamente dal verbo ‘essere’, suo fratello filosofico più fortunato, il verbo avere instaura tra i termini coinvolti una relazione costitutivamente instabile, solo apparentemente transitiva, che è sempre una relazione di non identità (ed ecco perché avere e non sono come il concavo e il convesso). Si può avere qualcosa, e dunque disporne, soltanto a patto che questo qualcosa sia, e resti, irriducibilmente altro da chi lo possiede. Soltanto l’animale che non coincide con la sua essenza può averla. È così che il verbo avere, dall’apparenza innocua, si rivela un verbo fatale, capace di mostrare lo iato incolmabile che separa l’animale umano da tutto quanto gli è proprio.

Spostare l’attenzione dall’essere all’avere, dal cosa si è al come si ha, è il gesto filosofico che consente finalmente di trasferire l’indagine sulla natura umana dalla ricerca ossessiva di quell’unico tratto definitorio che, da solo, ci renderebbe quello che siamo, alla riflessione sulla relazione che il bipede implume intrattiene con se stesso e con le molteplici sue prerogative, siano esse risorse o lacune. L’indagine sul verbo avere mostra come questa relazione – sia che investa la facoltà di linguaggio, sia che alluda alla neotenia, ovvero al protratto infantilismo dell’animale umano, sia che riguardi la nostra postura eretta, o il deficit di inibizioni, o i neuroni specchio (che sono la base neuro-fisiologica dell’empatia), o qualsiasi altra caratteristica che l’animale umano ha, incluso il corpo e la stessa vita – sia sempre una relazione estrinseca: tanto più estrinseca quanto più intimo è ciò che viene posseduto.

Stranieri a noi stessi
È in questa relazione di intima estraneità a sé stessi che si innestano tanto la possibilità dell’amicizia – aristotelicamente intesa come relazione con un altro sé stesso a cui ci lega una comunanza non di affetti o di opinioni ma di stile – quanto la stessa autocoscienza la cui origine è da ricercarsi nelle risorse antropologiche dell’amicizia. È infatti sempre l’estraneità a sé, il distacco dalla propria vita e dalla propria essenza, a rendere possibile sia guardare all’altro (e prima ancora a sé stessi) come un diverso se stesso, sia avere esperienza delle proprie percezioni, dei propri pensieri, della propria vita. Se a rendere possibile l’amicizia è questa costitutiva relazione di estraneità, amico per antonomasia è allora lo straniero e il primo straniero con cui l’animale loquace si trova a dover fare i conti è proprio se stesso, potendo disporre di sé, del proprio corpo e della sua stessa vita fino alla possibilità estrema del suicidio, del levare la mano su di sé.

A renderci stranieri a noi stessi, a imporci questa relazione estrinseca con la nostra vita e con tutto ciò che possediamo, è una delle nostre principali peculiarità: il linguaggio verbale. Proprio alla nostra capacità di parlare si deve quel distacco nel quale si radica l’avere. La parola non è mai la cosa che nomina, il senso non è mai la sua denotazione né coincide con la sua forza illocutoria. E tuttavia, il linguaggio (e altrettanto l’animale che lo possiede) non gode di una posizione di particolare privilegio rispetto alla disaderenza che pure contribuisce a generare. In quanto elemento del nostro corredo biologico, il linguaggio è qualcosa che abbiamo, e dunque non sfugge al destino di estraneità che lo distanzia dal suo possessore. Non a caso, questa peculiare relazione di intima esteriorità emerge in tutta la sua potenza nella celebre definizione aristotelica dell’uomo come zoon logon echon (animale che ha il linguaggio) cui Virno dedica pagine di straordinaria densità.

Se, per una volta, si mette l’accento non su zoon o logon, ma su quell’apparentemente insignificante participio presente del verbo avere (echon) che lega i due sostantivi, si potrà finalmente guardare al linguaggio non come a un istinto specializzato ma come a un possesso sempre instabile, sempre precario. I fenomeni speculari dell’infanzia (dove il linguaggio non è ancora) e dell’afasia (dove il linguaggio non è più) mostrano come l’animale loquace debba appropriarsi sempre di nuovo di quella sua capacità innata che è la facoltà di linguaggio.

Il processo di reiterata e necessaria appropriazione di ciò che ci è già dato e che tuttavia mai ci appartiene non riguarda soltanto il linguaggio, bensì tutti i nostri instabili e precari possessi. Una forma peculiare di sintesi a priori fa sì che il vivente si appropri delle sue stesse prerogative senza mai poter combaciare con esse. Per illustrare questo processo, Paolo Virno ricorre alla categoria platonica della partecipazione (metexis, composto del verbo echein), riletta in chiave materialistica come una forma della prassi. La metexis diventa così un ‘prelievo utilizzante’, ovvero l’insieme delle azioni che consentono all’animale umano non solo di prendere parte a ma anche fare uso delle sue prerogative filogenetiche. Un prelievo che non è mai pacifico o tranquillizzante. Le prerogative che l’animale loquace ha e a cui partecipa, essendo indipendenti da colui che le possiede e sempre a rischio di venire perdute (o di ritorcersi contro) devono anche costantemente essere tenute a bada, trattenute.
Fa la sua comparsa, così, accanto ad echein (avere) e metechein (partecipare) un terzo verbo, katekein (trattenere), che completa le possibili declinazioni della relazione che l’animale umano intrattiene con la sua specifica natura.

Sempre fuori di sé
Ma che animale è dunque questo che deve necessariamente avere, prendere parte a e tenere a bada la sua essenza e la sua stessa vita? È un animale costitutivamente eccentrico, destinato a restare sempre fuori di sé. Non conosce pareggio di bilancio ma è sempre, ad un tempo, creditore e debitore, precursore ed erede delle sue caratteristiche essenziali. Un animale che può dire soltanto di ‘avere quel che ancora non è’ e di ‘essere quel che rischia di non avere più’. È l’animale paradossale per natura che ambisce, senza mai riuscirci del tutto, a realizzare l’invito di Paolo di Tarso ad avere come non avendo e nondimeno avere tutto.