’O munaciello, leggendaria figura del folklore napoletano: secondo Matilde Serao sarebbe ispirato a una storia vera che risale all’età aragonese, il «piccolo monaco» sarebbe il figlio malnato di una coppia clandestina. È uno spiritello che appare per fare dispetti o anche piccoli gesti benevoli, assecondando imperscrutabili predilezioni e antipatie. ’O munaciello veniva utilizzato come sublime escamotage letterario nelle case dei «napoletani antichi»: per giustificare piccoli ammanchi di denaro, con ironia patente, o spiegare spostamenti misteriosi di oggetti («è stato ’o munaciello!»).

Tra le altre, indimenticabili le sue più recenti evocazioni nella Gatta Cenerentola di Roberto De Simone e in Questi fantasmi di Eduardo, esempio quest’ultimo che Paolo Sorrentino, all’inizio del suo nuovo film presentato ieri a Venezia, deve aver tenuto presente: come lì Eduardo scambiava l’amante di sua moglie per lo spiritello, così nelle prime scene di È stata la mano di Dio il personaggio di Luisa Ranieri, per giustificare uno strano «eccesso» di denaro accumulato nella sua borsetta notturna, ricorre al vecchio adagio: «è stato ’o munaciello!».

SORRENTINO, rispondendo ieri ad alcune domande nei giardini dell’Hotel Excelsior al Lido, tiene a precisare che questa scena di apertura «segna uno spartiacque tra il mio modo di fare cinema precedente e quello che volevo proporre» in quello che definisce «un piccolo film, scritto in pochissimo tempo, che avevo in testa già da anni. La scena onirica del munaciello è una sorta di congedo dal mio cinema prima di È stata la mano di Dio, quando un certo tipo di copioni e la mia voglia di divertirmi mi hanno fatto usare la camera per movimenti anche molto complessi. Stavolta ho riscoperto la semplicità che sta nel decidere l’inquadratura e poi lasciare che le cose accadano dentro di essa. Mi sono chiesto chi me lo avesse fatto fare allora di complicarmi la vita a quel modo: così è molto meno faticoso», dice sorridendo.

Le domande su Napoli trovano il regista restìo. «Non penso di poter parlare a nome dei miei concittadini o di dire qualcosa di nuovo su Napoli: è stato già detto tutto. Certo, la sua promiscuità è il tratto che più mi interessa, la vivevo da ragazzo come un safari a cielo aperto, erotismo, sacro e profano tutti mescolati e tenuti insieme da una legge misteriosa. D’altronde non mi interessava fare un film sulla città o su un determinato periodo storico, come possono essere gli anni ottanta. Non mi piacciono i film che indugiano troppo sui dettagli ‘d’epoca’ e poi magari si perdono. Questo è un film su un adolescente che perde i genitori, e il suo nucleo è dichiaratamente autobiografico».

Al centro del film, fin dal titolo, c’è Diego Maradona, che già compariva in alcune scene di La giovinezza e qui accompagna sullo sfondo gli eventi personali della vita del protagonista: «Quello di Maradona a Napoli non è stato un approdo ma un avvento, un evento mistico. È stato un momento sicuramente liberatorio per tanti di noi in città».

NELLA SCENA conclusiva si intuisce che per Fabietto qualcosa di definitivo si è rotto, e qualcosa di nuovo, forse l’età adulta, sta per cominciare. Lo si capisce dal walk-man che tiene sempre con sé ma che non emette mai un suono: «Alla fine, invece, quando il ragazzo parte per Roma inseguendo i suoi sogni, ecco fluire la musica che fino a quel momento ascoltava senza sentire».

Poco prima, un’ultima apparizione del munaciello, stavolta benevola e quasi divina: il piccolo monaco stavolta abbassa il cappuccio, e ne emerge un volto la cui somiglianza è inconfondibile (non riveliamo). Stavolta lo spiritello saluta con la mano e augura al giovane buon viaggio. Una scena che tiene insieme tutte le direzioni del film e conclude il percorso di formazione di Fabietto, ma senza intenti liberatori o di riscatto: «Il cinema, come dice un mio personaggio, non serve a niente se non a divertirsi. Come il calcio, e come quasi tutto il resto».