«Ogni volta che mi metto a scrivere un film vorrei che fosse sia commuovente che divertente. Ma soprattutto divertente». Il desiderio di Paolo Sorrentino, in concorso a Cannes, è esaudito dal pubblico della proiezione stampa di Youth: si ride molto, e gli applausi sono tanti, anche se controbilanciati da qualche fischio agguerrito. Il suo primo lavoro dopo il premio Oscar La grande bellezza è un film in cui tornano, in una dimensione più intima e personale, quelli che Sorrentino definisce «dei temi che mi stanno molto a cuore». «Questa magari è un’opera più semplice di quelle precedenti – continua- ma anche con Il divo volevo far commuovere, e mi accadeva nelle scene in cui Andreotti guardava la televisione con la moglie. Youth è il mio tentativo di essere più sincero possibile facendo un film d’amore. Siccome ho troppo pudore per raccontare una storia di sentimenti vera e propria la sublimo nell’amicizia, nell’amore per i figli, la paura che dimentichino ciò che abbiamo fatto per loro…».

Ma c’è anche il profondo senso di nostalgia, la presenza costante di qualcosa che si è perso lungo la via ma che continua ad accompagnarci. Come avveniva, ad esempio, in Le conseguenze dell’amore, il cui finale sembra imparentato con quest’ultimo lavoro: «io giro sempre lo stesso finale», scherza Sorrentino.
Nel caso di Youth, l’assenza che grava su Fred Ballinger, il protagonista compositore e direttore d’orchestra interpretato da Michael è quella della moglie morta. Quando gli viene chiesto se farà mai un film con una protagonista donna, Sorrentino risponde «molto spesso il protagonista è quello che non si vede ma viene sempre evocato, quindi in questo caso, da un certo punto di vista, la moglie di Fred».

Al fianco del protagonista c’è Mick, l’amico regista hollywoodiano interpretato da Harvey Keitel, che raffigura un tipo diverso di approccio al futuro in un’età in cui resta soprattutto il passato: «Il personaggio di Michael Caine ha un amorevole distacco dalle cose, che non garantisce la felicità ma almeno consente una certa quiete. Invece Mick è la passione per antonomasia, per lui tutto diventa una questione di vita o di morte, una cosa molto diffusa tra i registi». «Personalmente – ride Sorrentino – tenderei ad essere come Fred. Ma sto lavorando per andare verso Mick…».

Con Youth si completa la nutrita sfilata di italiani in concorso a Cannes 68, rispetto a cui il regista napoletano si dice d’accordo con Nanni Moretti. «Anche io ne sono felice ma trovo che si tratti del frutto di certi exploit personali. Inoltre penso che da noi ci sia un certo compiacimento a parlar male delle nostre cose. Mentre qui c’è un maggiore orgoglio». La scelta di girare in inglese era inevitabile in un’opera concepita per Michael Caine – «mi viene più facile scrivere pensando ad una persona in carne ed ossa», sottolinea Sorrentino – con quei personaggi e quegli attori. «Non poteva non riguardare il mondo anglosassone. E credo non ci sia niente di male nel fatto che dei registi girino in inglese pur non essendolo. Le nuove generazioni hanno una cultura di riferimento che non è solo quella italiana, per cui sotto questo punto di vista il discorso che paragona i registi di ieri a quelli di oggi è strabico». Parola al pubblico ora – Youth esce oggi nelle sale italiane – ma Sorrentino non azzarda previsioni: «il rapporto di un’opera col pubblico è sempre molto misterioso, se non fosse così faremmo sempre film che incassano 20 milioni di euro».