In un istante il mondo si ferma catturato dall’obbiettivo di una macchina fotografica che svela in un tempo infinito i segreti della realtà cristallizzata. La rappresentazione del reale e la sua lettura in un immagine è al centro dell’ultimo viaggio di Cecilia Mangini, protagonista e co-regista insieme a Paolo Pisanelli de Il mondo a scatti. Un viaggio straordinario quello di Cecilia Mangini in cui ripercorre le fasi e le esperienze fondamentali della sua formazione, dove immagini del passato e del presente si uniscono in un dialogo continuo restituendo una testimonianza straordinaria sulla funzione della pittura, della fotografia e delle immagini in movimento, il cinema documentario come sintesi estrema della visione e dell’impegno politico di Mangini.

Quando è nato questo progetto e come avete lavorato con Cecilia?
Abbiamo iniziato a ragionarci nel 2015. Dopo nel 2016, quando ho curato con Claudio Domini la prima mostra ontologica di Cecilia a Bari, le ho chiesto di raccontarmi dei suoi reportage iniziando da quello di Lipari – Panarea del 1952, il primo reportage in cui capisce di essere una fotografa. Poi ci sono i viaggi al sud, nella Firenze di Pratolini e nella Milano di Vittorini, viaggi che sono stati l’occasione per Cecilia di fare anche dei sopralluoghi per i suoi film. Tra il ’52 e il ’58 lei si occupa solo di fotografia di strada, molto raro per l’epoca e collabora con Cinema nuovo, Vie nuove e Proto6. Per me la cosa migliore era di farmi raccontare i reportage divisi in questo modo, ma questo film è infinito perché abbiamo scoperto tante e tante cose durante la creazione delle mostre, tanto che nel frattempo abbiamo fatto tre cortometraggi e due documentari. La cosa che ci ha fermati a lungo è stata la realizzazione di Due scatole dimenticate, film sul più grande reportage di Cecilia e Lino Del Fra in Vietnam per la realizzazione di Le Vietnam sera libre. Poi è arrivato il documentario su Grazia Deledda che abbiamo girato in Sardegna. Abbiamo lavorato nel corso del tempo ed è stato un percorso di esplorazione e di scoperta molto affascinante.

In tutti questi anni quali sono state le difficoltà e come avete lavorato al montaggio?
La difficoltà maggiore è la quantità immensa di materiale che avevamo a disposizione. Cecilia diceva che tutta questa possibilità di girare con il digitale può portare confusione e a non strutturare bene quello che vuoi girare. In questo film lei è stata narratrice di se stessa e durante il montaggio non voleva stare troppo a gingillarsi con le immagini, ma lavorare di sintesi. Lei era molto attenta alle inquadrature e con il montatore Matteo Gherardini passavano intere sessioni a rivedere le fotografie e a riquadrarle. Questa strategia di ripercorrere i reportage ci ha aiutato a strutturare il lavoro fotografico di Cecilia, invece, non abbiamo strutturato quello cinematografico che è arrivato per delle assonanze, per delle corrispondenze tra i temi e i cortometraggi. Per quanto riguarda Essere donne e All’armi siam fascisti ho dovuto insistere tanto per inserirli perché Cecilia era un po’ reticente, invece, io credo siano dei lavori importati per la storia d’Italia.

Nello sguardo di Cecilia emerge tutto l’impegno politico di quella generazione di documentaristi.
Il documentario ha una forte valenza politica legata ai temi sociali e alla cultura di un territorio, sicuramente non risolvi i problemi con un film però, come dicono Cecilia e Agnès Varda durante il loro incontro, un conto è fare una documentazione spicciola come i reportage in tv, diverso è lo sguardo di un documentarista che fa un discorso più approfondito nel tempo e nello spazio da cui nascono spunti di riflessione. Ci sono delle narrazioni e dei luoghi che hanno bisogno di essere osservati nuovamente dopo un certo periodo e per un documentarista ritornare sui set è sempre importante perché si crea un’unione con il territorio e le persone. Per esempio mi hanno proposto di tornare a Taranto, molti anni dopo aver girato Buongiorno Taranto, per osservare quali sono stati i cambiamenti. Nel centro storico sono stati fatti tanti progetti grazie a molti finanziamenti, ma rispetto al tema più importante per Taranto, cioè la tossicità, il problema è sempre presente.

Ascoltando le riflessioni di Mangini non si può non pensare all’uso che oggi si fa delle fotografie, siamo bombardati da immagini dove si perde il tempo e il confine con la realtà.
Qui si apre un discorso enorme. Le fotografie in bianco e nero sono materia, un oggetto che puoi tenere in mano e hanno un tempo più lungo rispetto alle foto digitali che passano velocissime sugli schermi, su internet dove si perde il senso di verità e molte fotografie vengono trasformate. La questione più importante è la corrispondenza con la fotografia, quando Cecilia era giovane dovevi essere molto bravo a modificare le foto o eliminare i soggetti, non c’erano i mezzi per l’elaborazione come oggi che invece è molto facile e veloce. Come racconta Cecilia per Trotsky che «scompare» dal regime sovietico quando esplode il conflitto con Stalin. É un argomento su cui si è interrogata molto quando ha ritrovato delle scene di un film, mai proiettato perché il produttore voleva usare un modo di raccontare che lei e Lino non accettavano, su Stalin e Trotsky e sulla realtà modificata, cancellata. Il tema vero-falso delle immagini oggi è fondamentale, fa parte delle fake news così come nel modo di raccontare dell’arte contemporanea che gioca con l’ambiguità o sull’artificiosità dell’immagine. Penso che questo sia un tema su cui riflettere e capire, soprattutto quando scoppia una guerre e si scatena la finzione grazie alla propaganda. Cambiano le tecnologie e ci troviamo in una situazione in cui ci si chiede qual è il modo per affrontare questa situazione.

Con grande ironia Cecilia prende parte anche a un film di finzione con un ruolo particolare.
Le scene del fine vita sono legate a un film di Stéphane Batut dove per la prima volta diventa attrice e interpretare il ruolo di una donna che muore in modo rocambolesco con un gatto che le cade in testa. Le dissi che forse era un po’ pesante per lei andare fino a Parigi per fare un ruolo che può portare anche un po’ sfiga, lei invece era molto divertita e l’incontro con Sthéphane è stato sicuramente molto importante, si sono piaciuti. Lei diceva che si va verso il fine vita e accumuli una serie di cose che vorresti fare, di esperienze che vorresti esprimere. Ho capito che per lei era importante quando mi disse che si annoiava e questa poteva essere un esperienza nuova e divertente.

C’è solo un momento nel film dove per la prima volta si sente la fragilità di Cecilia, cioè la paura di non saper rappresentare la contemporaneità.
Eravamo al Maxxi difronte alla serie Atlante di Ghirri, un’esplorazione dell’atlante al confine con l’arte concettuale: fotografa le cartine dove il mondo si è smaterializzato. Quando Cecilia ha visto le sue opere mi ha detto che Ghirri è un pezzo avanti a noi che siamo antichi, siamo morti in qualche modo, ma poi ironicamente mi ha detto che forse aveva esagerato. Da un punto di vista del calore nelle foto di Cecilia, così come di Mario Dondero o di Zavattini, c’è un adesione più immediata in cui si cerca qualcosa che sta succedendo. Per questo Cecilia amava molto Klein e Cartier Bresson, cioè un modo di fotografare culminante in qualcosa che sta succedendo. Per esempio nella serie su Milano c’è una foto nelle periferie milanesi in cui è ripresa una casa tutta sgarrupata con dietro le fabbriche: in quello scatto vedi il passato, una famiglia che sta crescendo e il contemporaneo, cioè l’industria pesante. Cecilia ha sempre detto che il fotografo offre il suo sguardo all’altro, fa vedere quello che in un istante sono riusciti a fermare. Per lei il momento di scattare una foto è eternizzare il tempo.