Seguendo una parabola fatta di qualche decennio di studi e disparati viaggi, Il dio che danza di Paolo Pecere (Nottetempo, pp. 340,€ 18,00) racconta quel fenomeno antichissimo e universale che è la trance da possessione indotta dalla danza e dalla musica, praticata nell’antica Grecia in nome di Dioniso, il «dio folle» che al contempo «dispensa gioia» e «libera» dai margini fragili dell’io e delle norme sociali.

Come nelle nostre società contemporanee, a varie latitudini e in vari continenti, questi riti coreutici siano ancora oggi perpetuati e innervati di conflittualità e resistenza, è la domanda del testo, che passa per l’osservazione del processo tramite il quale questi fenomeni di trance, o transitus – implicando la transitoria perdita del sé e dei riferimenti quotidiani, e altalenando tra l’animalesco, il diabolico e il divino – approdino a una forma di conoscenza «altra».

Partendo dal tarantismo in Puglia, sua terra di origine, sulle orme di Ernesto de Martino che nel 1959 vi si recò per conoscere gli ultimi tarantati, il testo evidenzia l’aspetto teatrale della perdita del controllo di sé, quando lo scatenamento del corpo e della voce approda all’indebolirsi della coscienza.

Estranea alla cultura dominante, la possessione inscena una commedia rituale che sospende la responsabilità sociale dell’individuo e mima la sovversione dell’ordine costituito. Secondo alcuni antropologi, la trance porta a una singolare capacità di rielaborazione, liberando il desiderio di esplorare riserve cognitive latenti. Le ricerche di Pecere si estendono all’Africa, all’India, al Pakistan, al Brasile e all’Amazzonia, usando i filtri dello strutturalismo, del marxismo e del pensiero gramsciano.

I suoi riferimenti sono nei testi di Métraux, Lévi-Strauss, Humboldt e Leiris, tramite i quali Pecere tenta di decifrare e tradurre dal punto di vista di un occidentale i fenomeni cui assiste in prima persona. Osserva, nel subcontinente indiano, le danze estatiche del theyyam attraverso le quali si crede che gli dei entrino nel corpo dei danzatori appartenenti alle caste inferiori, i dalit, perciò onorati dall’intera comunità, suggerendo la necessità di riscoprire la lezione di Ambedkar, contro l’odioso sistema castale e le minacce attuali del nazionalismo estremista indù. In Africa e Brasile sono i fenomeni di possessione dello zâr e del vodu a sostenere l’identità culturale dei colonizzati, portando a un rovesciamento immaginario dei rapporti di potere.

Ultima tappa, New York, dove di fronte a fenomeni di mascheramenti quotidiani, e ai cortei dionisiaci sia della parata di Halloween sia del World Pride, Pecere indica nello sciamano urbano il mediatore, traduttore e narratore di un al di là delle apparenze, che a sua volta indica la potenziale fisionomia di una collettività globale.