Nell’affollato panorama dei libri dedicati alle vite delle grandi icone un posto di spicco spetta a Paolo Parisi, che ha all’attivo 4 titoli molto significativi per il genere delle biografie a fumetti.

Un percorso iniziato dai musicisti John Coltrane e Billie Holiday (Coconino Press) che approda in anni più recenti agli artisti visivi, Basquiat e Keith Haring (Centauria) che abbiamo cercato di tracciare con l’autore.

I tuoi sono lavori molto diversi, nella tecnica, nelle atmosfere, nella composizione stessa dei libri…
Si tratta di una ricerca sul mito, un’esplorazione su punti di riferimento artistico culturali che hanno fatto la differenza e che hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Tutto è iniziato anni fa con la mia passione per il vinile e il jazz, soprattutto quello radicale degli anni ’60-‘70. Il libro su John Coltrane è nato così, infatti si possono cogliere delle relazioni tra la sua opera e la struttura narrativa del libro. Il percorso, molto più ampio, è continuato con la biografia su Lady Day e il suo blues tormentato, dove ho messo in relazione brani musicali e singoli capitoli del libro. Con Jean-Michel Basquiat (instancabile ascoltatore di Lady Day, di Charlie Parker e Miles Davis) e con Haring, ho cercato l’immediatezza grafica e compositiva. In Haring, in particolare, ho voluto lavorare graficamente su arte e attivismo, due elementi cardine del suo iter artistico. Le tematiche delle sue opere coincidono con i temi caldi della critica globale: si è schierato dalla parte dei diritti civili delle comunità omosessuali, contro il razzismo e l’apartheid, in favore della ricerca sull’HIV, critica radicale a certi dogmi religiosi, contro il nucleare e via dicendo. Messaggi ancora oggi validi: probabilmente Billie Holiday sfilerebbe con il Black Lives Matter intonando i versi di Strange Fruit mentre Haring marcerebbe accanto a Greta Thunberg e i Fridays for Future.

Nel 1974 Tony Shafrazi (artista e gallerista-il primo a dare lavoro a Haring) scrive in rosso «All lies kill» sul Guernica di Picasso; pochi mesi dopo Keith Haring porta l’atto performativo della scrittura e della pittura sui muri della città brulicante, e rivela la sua vocazione naturale di interprete di un tempo in cui l’arte è pronta a essere messa in discussione e così il suo destinatario. È questo che io vedo nella sintesi del segno, così universale di Haring, un artista tra quelli che più hanno avvicinato l’arte alla gente. Che ne pensi?
Haring era uno che voleva cambiare le cose, riuscendoci. Pensiamo ai Subway Drawings: un giovanissimo Haring sbarca a New York dalla sonnolenta provincia americana per frequentare la School of Visual Arts, si ritrova immerso nella vitalità culturale della metropoli, e vede nei pendolari della metropolitana di New York il pubblico ideale a cui rivolgersi. Disegna nelle bacheche pubblicitarie vuote e abbandonate. Il suo immaginario è ricco e vitale, il segno ridotto all’osso colpisce per la sua immediatezza e ironia. Il mercato dell’arte inizia a interessarsi a lui, si aprono le porte delle gallerie e dei collezionisti, delle commissioni museali e opere pubbliche, negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone. Non dimentichiamo che all’epoca la politica contro i graffiti era molto dura, lontanissima dallo sdoganamento ufficiale della «street art» degli ultimi anni. Con i Subway Drawings, progetto pittorico, performativo e politico, Haring inizia a porre le basi della propria visione artistica: per lui la morte dell’arte è nell’ élite e nei suoi circoli auto referenziali, mentre lui cerca un linguaggio inclusivo, universale, provocatorio, immediato, comprensibile e riproducibile. È questo l’aspetto del mondo dei graffiti che lo attrae maggiormente, un’«arte aperta a tutti» che sia accessibile a molte persone senza esclusioni o distinzioni di alcun tipo. Ed è sicuramente l’aspetto che più mi interessa dell’opera di Haring.

Stabilita la ricerca di una dimensione collettiva dell’arte, i percorsi di Basquiat e Haring che condividono la tappa graffitara, non sfociano nelle stesse intenzioni pittoriche: l’arte di Basquiat risulta meno accessibile, più stratificata, quella di Haring di un’essenzialità assoluta. Come hai reso questa differenza attraverso il trattamento grafico dei due libri?
Graficamente i due volumi sono frutto di una riflessione sull’opera del singolo artista in questione: in Basquiat c’è una stretta correlazione tra alcune sue tele (es. Hollywood Africans del 1983) e le tonalità di colore che ho scelto: giallo, blu e rosso molto accesi e usati in maniera poco canonica. Il risultato è tagliente, eccessivo e impattante, mi è sembrata una buona soluzione per rendere visivamente l’aspetto caratteriale più irruente dell’artista. Per definire l’opera di Basquiat, aggiungerei anche istintiva, grezza, senza un alfabeto artistico di fondo. La resa di questa stratificazione si concretizza in sceneggiatura nell’alternanza tra voci off, dialoghi e fittizie pagine di un diario personale. Questi salti narrativi suggeriscono un quadro più ampio sulla vicenda umana dell’artista. In Haring il ragionamento è stato il medesimo, ma concentrato più su quell’aspetto che tu giustamente identifichi come essenzialità assoluta. Haring ha un segno che deriva dalla cultura pop, dall’icona, dalla tag dei graffiti, dal fumetto. Questa essenzialità viene tradotta nell’uso dello spettro cromatico CMYK: i quattro colori primari diventano l’alfabeto dell’intera vicenda, emozionano e stridono diventando a tutti gli effetti un elemento narrativo. Le pagine del vero diario di Haring sono un vero e proprio flusso ininterrotto di considerazioni, pensieri, osservazioni e appunti sparsi sulla sua quotidianità, le sue vicende e relazioni personali, sull’arte e mercato, sulla cultura e politica in generale; una narrazione fatta di continui flashback era funzionale nella resa di questo sua costante analisi critica.

Ho in mano il booklet del vinile di Heligoland dei Massive Attack e improvvisamente penso all’immensa eredità della pop art nella cultura visiva del XXI secolo. Quali le influenze del jazz, di cui ti sei prima occupato con Coltrane e Holiday?
Il rapporto arti visive e musica richiederebbe un discorso a parte. Mi limiterò a citare Reid Miles, storico grafico della Blue Note Records, artefice dell’identità visiva della leggendaria casa discografica. Sono sue le celebri copertine con le composizioni tipografiche e le foto di Francis Wolff trattate con un unico colore pantone piatto, un esempio su tutti Blue Train di Coltrane del 1958, che omaggio esplicitamente nella copertina del volume per Coltrane. Ma la lista è davvero lunga: Eric Dolphy, Wayne Shorter, Kenny Burrell, Thelonious Monk, Art Blakey ecc. Sempre in tema Blue Note, ricorderei anche la collaborazione di Warhol per alcune cover negli anni ‘50, oppure, arrivando al 1970, ricorderei Mati Klarwein e l’iconica copertina per Bitches Brew (1970) di Miles Davis, per Columbia Records. Se guardiamo al mondo del fumetto segnalerei la collaborazione tra il chitarrista Bill Frisell e il maestro americano Jim Woodring per il disco Trosper del 2001. Per concludere, l’aspetto visuale è l’identità con cui il volume, o il disco, si presenta e che in un colpo d’occhio ci dice molto del suo contenuto. Ovviamente il marketing non va trascurato: la riconoscibilità e la continuità sono parole chiave per il mercato, sia esso discografico o editoriale.

L’accessibilità dei linguaggi artistici e la loro fruizione interessano anche te da vicino, come spieghi nella prefazione di Keith Haring. I tuoi titoli editi da Centauria, che da qualche anno costruisce un catalogo di biografie artistiche spesso presenti anche in queste pagine, contengono prefazione e bibliografie. Come si vive l’intento divulgativo nel fare fumetto? Credi che sia l’unico registro per avvicinare la gente alla lettura?
La prefazione e la bibliografia sono parti fondamentali di un libro e mi piace siano presenti. Mi danno un’idea del territorio in cui mi sto imbattendo. L’intento è elencare sia i titoli che sono stati determinanti nella «costruzione» del libro sia suggerirli come puro approfondimento. Trattandosi di biografie che si rifanno a vite e fatti reali, per me è doveroso e importante segnalare le fonti: ecco il perché della presenza di una lista di volumi, film, documentari, dischi, fotografi che hanno avuto la funzione di ispirazione o sono citati qua e là all’interno della pagine. La inserirei anche se si trattasse di un fumetto di genere o di fiction. La cultura è stratificata, tutto nasce come elaborazione di qualcos’altro, quindi nelle mie opere troverete esplicitati sempre dei punti di riferimento. Altro nodo fondamentale è che l’opera abbia il suo giusto percorso e la maggiore diffusione e condivisione possibile; come sappiamo gli ultimi dati sulla lettura in Italia non sono molto incoraggianti. Per diffusione e condivisione intendo anche librerie, biblioteche di quartiere e che dovrebbero essere maggiormente sostenute e distribuite nel territorio, la reperibilità e la presenza di eventi correlati ai libri sono determinanti. Credo sia inevitabile confrontarsi con questo genere di problematiche.