Il bicentenario della nascita di Dostoevskij sta portando con sé un profluvio di testi: meritori inediti tra i quali alcune lettere, traduzioni tra le quali anche alcune che nulla aggiungono a quelle esistenti, e un romanzo dal titolo un po’ truce, Sanguina ancora L’incredibile vita di Fedor Michajlovic Dostoevskij (Mondadori, pp. 289, € 18,50) di Paolo Nori che, pur essendosi professato in I russi sono matti (Utet 2019) «non esperto di Dostoevskij» si lancia ora in una dichiarazione d’amore, sebbene sui generis, scritta durante il fatidico primo anno di pandemia.

Fra una divagazione e l’altra in opere e avvenimenti letterari e personali, Nori si rifà a Angelo Maria Ripellino quando, recluso in un sanatorio nella Repubblica Ceca, definì sé stesso e gli altri ricoverati «i nonostante», cioè persone sgualcite che si opponevano all’insolenza del male. Incoraggiato dall’esempio di colui che fu, tra l’altro, il primo traduttore di Chlebnikov (uno dei suoi poeti cult) Nori indaga i motivi per cui Delitto e castigo, «un romanzo inaudito», letto in anni ormai lontani, ha aperto in lui una ferita che non accenna a rimarginarsi.

Le ragioni di questa straordinaria incisività, Nori le trova nella vita di Dostoevskij, ingegnere fallito, traduttore umiliato, condannato a morte graziato all’ultimo minuto, giocatore sfortunato, amante e marito appassionato, scrittore spiantato, dotato della capacità di scavare in sé stesso e negli abissi umani. Ma in Sanguina ancora c’è – oltre a Dostoevskij – la letteratura russa nel suo complesso, dal Puškin del primo romanzo, Evgenij Onegin, alle Anime morte di Gogol’, «romanzo in versi» il primo, «poema in prosa» il secondo, che gli servono come esempi del carattere ibrido dei generi letterari russi.