Non capita tutti i giorni che a un artista italiano, piuttosto al di fuori del sistema dell’arte, venga dedicato un volume all’estero di ben 436 pagine con 11 saggi, un’antologia di suoi testi, una serie di apparati completi e centinaia di illustrazioni a colori e in bianco e nero.

Il soggetto in questione è Paolo Gioli e la pubblicazione Impressions Sauvages, uscita in Francia e curata da Philippe Dubois e Antonio Somaini per Les presses du réel.

È un libro che consacra definitivamente la figura e l’opera di un artista che, da oltre un cinquantennio, conduce una sua personalissima ricerca soprattutto in campo fotografico e filmico, attraverso la realizzazione di film in 16mm (quasi una quarantina dal 1969 fino a qualche anno fa) e polaroid prodotte con le tecniche più diverse, frutto di una sua abilità nel manipolare i dispositivi.
Punto di partenza del libro è quello espresso dai due curatori nell’introduzione, i quali denunciano un duplice approccio: antropologico e archeologico.

Il primo parte dalle osservazioni sulla figura dell’artista come «bricoleur» formulate da Lévi-Strauss nel suo celebre La Pensée sauvage (da qui l’ispirazione per il titolo del libro).
Gioli – secondo Dubois e Somaini – parte «da ciò che trova, da ciò che riesuma (i saperi, le tecniche, le materie, i media, le immagini) deturnandole, trasformandole, rinnovandole e re-inventandole secondo una ingegnosità infallibile, che attiene spesso all’ordine dell’espansione e dello slittamento (verso altri territori)».

Il secondo colloca i processi estetici di Gioli nell’ambito dell’archeologia dei media: del resto tutta la sua opera – ricca di omaggi ai maestri della cinefotografia da Cameron a Bayard, da Eakins a Muybridge – può essere letta come una riflessione sulla storia delle tecniche e la ricerca di un «futuro del passato» ma anche di «retro-futuri» e «futuri anteriori».

Il compito di addentrarsi nell’universo di Gioli visitando il suo atelier di Lendinara, è affidato a Jean-Michel Bouhours, curatore del Centre Pompidou e profondo conoscitore dell’opera dell’artista, cui ha consacrato saggi e rassegne, oltre ad aver fatto acquisire all’importante istituzione francese diversi suoi cortometraggi sperimentali.

Seguono i saggi di Lenot, Fragapane, Bertozzi, Boulouch, Dubois e Valtorta, che spaziano dall’analisi del colore al procedimento stenopeico, dal concetto di «sperimentazione» al motivo della maschera molto presente nelle sue opere, dove trionfano soprattutto corpi e volti in tutte le possibili varianti, decostruzioni e ricomposizioni.

Marco Senaldi si sofferma invece sulla pittura di Gioli, meno conosciuta e ancora tutta da riscoprire, anche perché l’artista ha realizzato le sue tele fino al 1970 circa, riservando gli interventi pittorici successivi ad alcune serie di polaroid, litografie e tele serigrafiche.

«La pittura – scrive Senaldi – più che una tecnica espressiva autonoma, è un dispositivo per rendere visibile il fenomeno che la precede, e che consiste nell’osservazione costante dell’universo che lo circonda».

Il contributo di Eugenia Querci, invece, prende in considerazione alcune opere ancora più giovanili di Gioli, i disegni databili tra il 1960 e il 1963 – influenzati da Pollock, De Koonig e Twombly conservati presso la Calcografia Nazionale – che ci mostrano un lato assolutamente inedito dell’artista.

Ma il saggio più singolare resta forse quello di Erik Bullot, il quale esplora un aspetto meno noto, il rapporto tra l’artista e il suo principale (e quasi unico) collezionista, Paolo Vampa, una sorta di «doppelganger» che dal 1968 ha finanziato e seguito tutto il lavoro di Gioli ed è l’artefice (seppure celato) di diverse mostre e pubblicazioni, ivi compresa questa.

«Al di là della dimensione biografica e psicologica, il ruolo di Vampa è interessante da analizzare in termini sociologici», scrive Bullot, il quale sottolinea la funzione del collezionista come mediatore e «implementatore» dell’opera di Gioli, definito icasticamente un «franco tiratore» nel sistema dell’arte, «a volte riconosciuto (le strategie di Vampa sono state efficaci sul piano istituzionale) a volte misconosciuto (il suo lavoro non conosce la consacrazione tanto attesa e resta troppo confidenziale)».