Alla Biennale di Venezia, all’interno del padiglione Italia, è ancora visibile fino a domenica 22 novembre, lo spazio dedicato a Paolo Gioli, dove sono esposte nove sue polaroid di grande formato (50×60) con torsi maschili attraversati da interferenze pittoriche, lacerazioni, incollature, alterazioni cromatiche, affiancati alla proiezione di due film: Immagini disturbate da un intenso parassita e Secondo il mio occhio di vetro, a sottolineare quanto la pittura, la fotografia il cinema abbiano sempre dialogato tra loro nell’universo di questo artista, che ha superato ormai i 50 anni di attività.

Ma la “riscoperta” di Gioli non si ferma qui. Oltre al cofanetto con 3 dvd che riuniscono tutta la sua opera filmica appena pubblicato da Rarovideo (e presto uscirà anche negli Stati Uniti in un’altra edizione curata da Patrick Rumble, che tra l’altro ha firmato l’anno scorso un lungo articolo sul suo cinema su “Artforum”), è in corso di pubblicazione in Francia un volume sulla sua opera, con contributi di studiosi italiani e stranieri, tra cui Bouhours, Somaini, Fragapane, Senaldi, Dubois, Lenot, Boulouch, Anne Cartier-Bresson e altri. Infine, c’è de segnalare la recente mostra alla Galleria del Cembalo nel Palazzo Borghese a Roma (fino al 14 Novembre)

Tutto ciò sta a testimoniare il crescente interesse per questo artista lontano da mode e tendenze per poter essere apprezzato e classificato. Pur essendo stato il primo a innovare tecniche come il polaroid, la stenotipia, il fotofinish, applicate anche al cinema, Gioli non è tra i fotografi più popolari. E come cineasta, unico italiano presente nella collezione del Pompidou con diverse pellicole proiettate in musei, rassegne e festival in tutto il mondo, è ancora autore di nicchia nonostante e le soluzioni creative estetiche e formali inedite e strabilianti e la coerenza della sua sperimentazione.

Gioli resta un unicum nel contesto del cinema d’artista internazionale, per la vocazione a pensare il film come punto di intersezione di tutte le arti. Ciascuno dei suoi film è basato su un concetto e su un procedimento tecnico spesso di grande semplicità ma dai risultati sorprendenti. La sua “resistenza” analogica in un’era digitale non è tuttavia dettata da un atteggiamento conservatore verso le immagini in movimento, semmai da un ricollegarsi al cinema delle origini e al pre-cinema che attualmente rappresenta la nuova avanguardia mediale.

Dal 1969 a oggi, con circa 40 film in 16mm, pur nella varietà delle sue opere, Gioli ha mantenuto una coerenza stilistica e metodologica davvero invidiabile. A cominciare dai film senza macchina da presa, dipinti o incollati su pellicola (i primissimi Tracce di tracce e Commutazioni con mutazioni) o realizzati a contatto (i recenti Quando i volti si toccano e Quando i corpi si toccano), utilizzando il foro stenopeico (da Film stenopeico iniziato nel 1973 all’ultimo Natura obscura del 2013) o gli otturatori “esterni” e perfino organici: da Filmfinish (1986-89) a Sommovimenti (2009) e Il finish delle figure (2009). E poi ci sono i suoi esperimenti basati su materiale pornografico (Quando la pellicola è calda, Interlinea e Tessitura calda), film che utilizzano fotografie proprie o altrui come punto di partenza, da Anonimatografo (1973) a I volti dell’anonimo (2009), da Filmarilyn (1992), che anima ultimi scatti della Monroe effettuati da Bert Stern, fino a Children (2009), che mescola foto di Avedon di JFK con altro repertorio.

L’opera filmica di Gioli è poi disseminata di omaggi ad artisti che ama e che hanno influenzato il suo lavoro: da Escher (Metamorfoso, 1991) a Duchamp (Immagini travolte dalla ruota di Duchamp, 1994), da Rothko (Rothkofilm, 2009) ai pionieri dell’arte foto-cine-grafica: L’assassino nudo (1984) e Piccolo film decomposto (1986) sono dedicati alla cronofotografia di Muybridge e Marey; Finestra davanti a un albero (1989) è un omaggio a Fox Talbot, mentre L’operatore perforato (1979) rappresenta un omaggio alla pellicola Pathé caratterizzata dalla perforazione al centro del fotogramma.

Tutto il cinema di Gioli è all’insegna dell’instabilità dell’immagine metamorfica, pulsante, tremolante, sfarfalleggiante, stroboscopica, dissolta e dissolvente, sdoppiata (il ricorso frequente alle immagini speculari, al raddoppio simmetrico come in Hilarisdoppio e Traumatografo), indecisa tra positivo e negativo, reale e virtuale, tendente alla frammentazione, all’incorniciamento alla ripartizione in finestre, riquadri, ma anche votata al conflitto con altre textures mediali: televisive, grafiche, fotografiche, pittoriche.

Gioli – che sarà ospite del MAXXI di Roma venerdì 6 novembre, alle 18.00, dove presenterà alcuni suoi film – è riuscito, da vero poeta visuale, a ricondurre la complessità dello sguardo, il meccanismo della percezione a un fenomeno “naturale”, non semplificandolo, semmai svelandone tutte le sfaccettature. Il suo è un cinema più che fisico o materico, chimico, biologico, organico. Filmare non è per lui come respirare, ma è direttamente respirare.

CONSUMARE LA “MATERIA” DEL CINEMA

Conversazione con Paolo Gioli

Nel rivedere oltre 45 anni di sperimentazioni, ritieni che ci sia una coerenza concettuale e stilistica nella tua filmografia? E qual è il comune denominatore della tua opera cinematografica?

Non me lo sono mai chiesto. Diciamo che il fatto di voler essere completamente autonomo, di sviluppare i film (oltre che le foto) per conto mio, senza ricorrere al laboratorio se non per la copia finale, è sicuramente qualcosa che mi caratterizza da sempre. E’ un atteggiamento ideologico ed esistenziale. Del resto io ho sempre sentito la necessità di verificare immediatamente il risultato. E se viene fuori una cosa totalmente sbagliata oppure bellissima, sono l’unico responsabile. Mi addosso sia la colpa sia il merito.

Nella tua attività artistica cronologicamente viene prima la sperimentazione fotografica o quella filmica?

Mi sono avvicinato alla fotografia grazie alla cinepresa. L’interesse per la fotografia è venuto dopo. Inizialmente realizzavo fotografie con la cinepresa, scattando singoli fotogrammi. Non sapevo niente di fotografia e pensavo che per fare foto si utilizzasse la stessa pellicola del film. Ho provato a impressionarla mettendoci sopra un po’ di sale o disponendovi sopra degli oggetti. In questo senso quello che ottieni con la pellicola fotografica lo ottieni anche con quella cinematografica. Ho dato un colpo di luce ed è uscito fuori qualcosa.

Come i film a contatto di Man Ray…

Si, ma ancora non avevo visto il suo film Le Retour à la raison. Nel mio lavoro ho sempre fatto il contrario di tutto ciò che mi dicevano di fare. Per esempio, creo delle sbrodolature sulla pellicola e poi mi chiedono come sono riuscito a farle. Semplice –rispondo – basta non attenersi alle regole! Le prime tre o quattro prove mi vengono perfette, poi cambia tutto. Basta il gesto però, dopo è solo compiacimento! Adoro le dissolvenze, quelle cinematografiche, create chiudendo l’otturatore e l’immagine dentro che rimane lì, non si consuma, ma diventa una silhouette scheletrita, senza appannarsi. La dissolvenza elettronica invece è orrenda, perché l’immagine sparisce di colpo.

Una delle costanti della tua opera è la necessità di frammentare l’immagine, creando tagli, lacerazioni, strappi, sovrapposizioni, interruzioni. Da cosa nasce questa estetica?

Provenendo dalla pittura ho sempre sentito il richiamo della materia. Prima ancora di pensare all’immagine io penso al supporto su cui la realizzo, al fondo, alla tessitura. Anzi, direi che è proprio la materia a suggerirmi che razza di immagine andrò a creare. Ed è pittoricamente che adopero la polaroid, uno strumento che Ando Gilardi ci teneva molto a distinguere dalla fotografia tout court, per la sua immediatezza e simultaneità. Nella polaroid la materia colorata si stacca, non a caso si usa un rullo per svilupparla. Diciamo che somiglia molto all’encausto, all’affresco, alla litografia, alla stampa… Come potevo quindi ignorare, nel lavorare con questo materiale, i riferimenti alla storia dell’arte? Comunque si, ho eseguito cicli di opere basate sulle fratture di cui parli. Per esempio appoggiavo sul supporto un pezzo di seta indiana, in modo che una parte dell’immagine si depositasse sulla carta filtrando attraverso la seta. Poi sollevavo il pezzetto di seta e lo incollavo sul supporto come se fosse un “testo a fronte”, creando delle sovrapposizioni.

Questo per le foto, ma nel caso dei film?

Con il film è diverso. Io adoro le sovrimpressioni e le dissolvenze incrociate, ovvero qualcosa di antichissimo, che i cineasti delle origini facevano direttamente in camera e, solo in un secondo tempo, in laboratorio. Anche nei miei film ci sono rimandi alla pittura, a un certo gusto per le forme geometriche, per l’apertura di riquadri, di finestre dentro le inquadrature, per l’immagine nell’immagine insomma. Inoltre, ho sempre amato trasferire i fotogrammi dei miei film in bianco e nero sulla tela di un quadro, intervenendo cromaticamente.

Stai parlando della serie dei cosiddetti schermi schermi o comunque di quelle serigrafie su tela costituite da avanzi, scarti o fotogrammi dei tuoi film…

Si, credo di essere stato forse l’unico cineasta a fare una cosa del genere. In questo modo il film non finisce dopo la proiezione, ma ha un prolungamento sulla tela serigrafica. Il procedimento di coloritura che mi sono inventato è ispirato al risparmio poiché di solito per realizzare la serigrafia ci vuole un telaio per ogni colore, mentre io ho sempre adoperato un solo telaio, mascherando di volta in volta alcune zone del quadro con sagome di carta ottenendo effetti particolari, certe sbavature volute. Poi, per rafforzare le cromie serigrafiche, intervenivo con ritocchi di acrilico.

Nell’era del digitale è sempre più difficile realizzare fotografie analogiche, purtroppo.

Si, certo, se pensiamo che il polaroid stesso è uscito di produzione! Ma i collezionisti d’arte quando vedono una fotografia ti domandano subito sei stato tu a stamparla. Tengono parecchio conto insomma, del procedimento perché influisce sulla valutazione dell’opera.

In Italia, credo, sei l’unico artista che continua a realizzare film in pellicola. Che effetto ti fa? Ti senti un solitario?

Questo atteggiamento è legato alle arti belle. Io vengo dalla pittura e amo lasciare i segni, i pentimenti del gesto. Certo, è difficile rinunciare alla telecamera, poiché il digitale è un po’ come una gomma da cancellare. Se sbagli, torni indietro e cancelli! Con la pellicola non è così! Quando hai girato non puoi più tornare indietro. La pellicola ti autodisciplina molto, ti obbliga a riflettere… Devi fare montaggi in testa e in macchina, devi ragionare moltissimo… C’è tensione, rigore… Poi, mi piace la cinepresa per un altro aspetto: ti dà l’idea di consumare materia.

Come riesci a conciliare il fare arte per te e al tempo stesso fare arte per gli altri?

Non mi interessa il pubblico. L’arte per me è un’esigenza personale. Faccio un’opera perché voglio vedere cosa salta fuori dalla prima cosa che mi viene in mente. Posso prendere in mano una mosca morta e partire proprio da lì, cioè da un niente, da una cosa apparentemente persa. Ma questo atteggiamento ha inizio anche prima dell’avvento di Duchamp e continua ad esserci dopo di lui.

Lo spirito di Duchamp aleggia molto nelle tue opere, a cominciare dai film. Pensi anche tu che sia stato il vero spartiacque nella storia dell’arte e più in generale della cultura?

Sì, insieme a Joyce, che rappresenta il corrispondente esatto di Duchamp in letteratura. Sono passati parecchi anni e Duchamp resta ancora un modello. Per esempio, la sua opera With The Tongue In My Cheek è un frammento del suo profilo in gesso completato a matita. Poi, vatti a vedere Giulio Paolini che, anni dopo, in una sua opera mette un frammento di una mano in gesso e la completa con il disegno. Il gesto e l’azione sono gli stessi. Molti conoscono quest’opera di Paolini ma non quella di Duchamp. Nella didascalia, Paolini avrebbe potuto almeno scrivere Omaggio a Duchamp. Io a Duchamp non ho mai fatto omaggi, al massimo sono partito da lui.

A proposito di omaggi, c’è un artista del passato o del presente che tu consideri un innovatore e al quale ti piacerebbe dedicare un film?

Lo dedicherei a due grandi, come Renzo Piano e Mario Brunello, il grande violoncellista. Io sarei voluto essere come Brunello. Invidio molto i musicisti come lui, e sai perché? Perché possiede un solo strumento e se lo tiene per tutta la vita, mica lo cambia perché diventa obsoleto. Cambia solo la musica che esegue, ovvero gli spartiti, come un cineasta i fotogrammi.

In passato hai girato un unico videotape, Il volto inciso; hai mai pensato di realizzarne un altro e in che modo?

Fabrizio Plessi ha dichiarato che non sa nulla di video. A lui non serve! Lui non è un operatore e preferisce delegare ad altri di cui si fida. Sono d’accordo!

Io vorrei avere tutti gli ingegneri elettronici a disposizione per fare tutto ciò che mi passa per la testa… roba di altissimo livello. Ma in realtà realizzare in digitale le cose che ho io in mente è praticamente impossibile. Ci sono cose che si possono creare solo in pellicola.

Da oltre 15 anni siamo arrivati a un punto di non ritorno nella storia delle immagini in movimento. Il “cinema” così come lo abbiamo conosciuto non ha più significato alcuno. Eppure, paradossalmente, più andiamo avanti con la tecnologia e più torniamo indietro, ricollegandoci ai tempi del pre-cinema. Sei d’accordo?

Sì, non si può fare a meno della Storia, senza però cadere nel nostalgico. Parlando del cinema delle origini per esempio, vediamo che i Lumière lo facevano solo per soldi, mentre a un pioniere come Marey non importava nulla della fotografia in sé. Per lui era solo uno strumento per analizzare il movimento fisiologico di uomini e animali.

Come mai hai usato poco il suono nei tuoi film?

Intanto per i costi che sono lievitati moltissimo. E poi per una sorta di sfida: riuscire a cavarmela solo con la forza delle immagini e del silenzio. I miei non li definisco film “muti”, piuttosto “silenziosi” – come dicono i francesi –. Per me il cinema è questo: buio, silenzio e il cono di luce della proiezione. Se te la cavi bene con questi elementi ridotti all’essenziale hai ottenuto il massimo risultato.

Anche Brakhage ha realizzato pochi film sonori…

Si, infatti. Ma perché senza il sonoro il film impegna maggiormente l’occhio, lo spettatore ha bisogno di una concentrazione maggiore. Per un certo periodo ho realizzato film utilizzando il foro stenopeico. Ora, come si può pensare di inserire il sonoro su immagini del genere, così primitive ed essenziali? Non avrebbe funzionato, sarei scaduto nel macchinismo! Quarant’anni fa proiettai al Filmstudio di Roma Quando la pellicola è calda. La colonna sonora la fece la gente in sala, borbottando, muovendosi sulle sedie e facendole cigolare, o alzandosi e andandosene via. Tra l’altro Cosulich scrisse un bell’articolo parlando di “eros sonoro” anche se il film era silenzioso.

A proposito di film pornografici (o erotici come preferisci chiamarli tu), ne hai girati diversi, pensi di realizzarne ancora?

Io farei solo film erotici perché sono affascinato dal corpo in generale e da certe parti anatomiche in particolare. Poi però penso che possa essere interpretato come un puro gioco voyeuristico e rinuncio. Ma ho in progetto di realizzarne uno interamente sulla vulva, trasformandola mediante una serie di sovrimpressioni, tanto che lo spettatore non capisce più di cosa si tratti realmente.

Ti hanno mai chiesto di lavorare nel campo del cinema più in generale?

A Roma ero in contatto con persone di Cinecittà. Mi sarei accontentato anche di fare la fotografia dei film. Una volta mi successe che, lavorando per l’allestimento teatrale di A come Alice di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann, mi chiesero un parere su come sistemare le luci e altre cose, ma mi accorsi che tendevo a fare l’autore! Volevo essere io a decidere. Ho capito che sarebbe stato un errore, cosi ho lasciato perdere. All’interno di questo spettacolo ho fatto alcune riprese, dei controcampi perlopiù, e alla fine Nanni ha usato più i frammenti miei che le riprese degli altri operatori i quali, giustamente, si sono infastiditi.

Hai mai pensato di girare un lungometraggio a soggetto?

Se qualcuno me lo avesse commissionato sì, lo avrei fatto volentieri. Sarebbe stato bellissimo, una gioia enorme per me. Certo, preferirei fare un film partendo da una mia idea, un film costruito su siparietti rapidi, semplici. Mi piacerebbe portare sullo schermo Crimenes ejemplares di Max Aub, un libro che racconta di crimini che ciascuno di noi può fare. Per esempio contro qualcuno che ti infastidisce su un autobus. Oppure, a me capita spesso che, vedendo qualcuno pescare, mi vien voglia di dargli una piccola spinta e buttarlo in acqua. Oppure, dare una pacca enorme ad un tizio che cammina per strada con un vassoio di paste in mano e schiacciargliele… Ecco, provo un irresistibile impulso a far cose così.

Insomma se avessi fatto l’artista negli anni ’10 o ’20 avresti realizzato delle azioni futuriste…

Si, mi sarebbe piaciuto. Mi interessa il cinema dell’avanguardia storica, naturalmente. Ricordo che alla Galleria del Cavallino di Venezia vidi Hans Richter presentare i suoi Rhythmus 21 e 23, esponendo anche i rispettivi rotoli. Peccato non aver scambiato con lui quattro chiacchiere in quell’occasione.

Quali sono invece i registi di cinema narrativo che ti piacciono di più?

Amo registi come Dreyer. Ricordo di aver visto i suoi film in televisione, quando la TV era ancora in b&n. Oppure i film di Bergman, un regista che parlava pochissimo con i suoi attori, poiché sapeva esattamente cosa doveva fargli fare…

Come li utilizzeresti gli attori se li avessi a disposizione per un tuo film?

Sarebbe stupendo. Io stesso mi ero messo in testa di volerlo fare l’attore. Me lo hanno chiesto una sola volta nella vita. Fu un regista famoso a chiamarmi, un regista di cui non farò il nome. Voleva farmi interpretate l’artista pazzo. Io non accettai perché altrimenti sarei diventato una macchietta, visto che sono realmente pazzo. È come chiedere a una prostituita di fare la prostituta in un film.

A proposito, quanto conta il tuo essere animalista nella tua arte? Insomma l’etica viene prima dell’estetica?

Io amo tutti gli animali. Ho salvato anche tanti insetti soprattutto quelli più piccoli. Giro sempre con una lente in tasca per vedere se c’è qualche insetto in pericolo vicino a una pozzanghera. In quel caso lo sollevo con un dito, lui sente il calore e si aggrappa, poi mi guarda e mi dice: «Cazzo, chi sei?». Mi ringrazia, si pulisce e se ne va. Quando vado in bicicletta non guardo mai per terra perché non voglio vedere gli insetti schiacciati. Ogni tanto mi fermo e con il fazzoletto li raccolgo e li metto in parte. Allora arrivo a casa in ritardo e mia moglie Carla mi chiede: «Ma dove sei stato?», ed io: «C’erano troppi morti per strada».