Il prossimo anno, Paolo Conte andrà per gli ottanta anni, l’unico che, in un radiofonico, incandescente, puntuto e polemico intervento, Valerio Magrelli, ritiene, tra i cantautori e con il solo De Andrè, degno del Nobel per la letteratura, appena assegnato a Bob Dylan. Ed è pura e singolare coincidenza che tutto sia accaduto lo scorso 13 ottobre: un giorno che si appresta ad essere ricordato, per alcuni versi, come epocale; proprio in un tempo che di eventi quotidiani ne conta a migliaia, tra cui la presentazione del nuovo album del cantautore astigiano, e che al contrario registra anche la scomparsa di un altro Nobel, Dario Fo, che non poco scandalo diciannove anni prima aveva destato nell’establishment intellettuale italiano e mondiale.

E vale oggi, oggi, la medesima levata di scudi per Dylan. E tutto sembra tornare quando Conte accenna agli amici cantautori che avrebbero meritato il Nobel, non oggi, ma negli anni settanta, per «il notevole dispendio di energia poetica dissipato rispetto ad altre nazioni». Ma, il sisma emotivo non sembra prendere più di tanto la platea d’addetti ai lavori, in parte amicale, che, con venerata partecipazione, resta ad ascoltare Conte che, inforcati un paio d’occhiali neri e sollecitato dal conduttore di Tv Talk, Massimo Bernardini, parla – e si vede che ha molta voglia di parlare – di sé, dell’album e di molto altro, districandosi in modo «stravagante» tra pittura, storia del jazz e musica da camera. Ci si accorge che il tutto accade con disarmante semplicità, Conte fende gli argomenti con la sua proverbiale e raffinata ironia, però di quella speciale che si ascolta nelle sue canzoni e non fa alcun male, cercando di schermire forse una timidezza che, è sembrata più appartenere ai suoi anni giovanili che al magnifico «intrattenitore» d’oggi. A tal proposito, è un piacere ascoltarlo descrivere la sua generazione alle prese con l’universo femminile e i tentativi di possederlo, «mantenendo molta cavalleria».

Perché Conte si sente «un novecentista», non solo musicalmente. Tutto «900», anche nelle aperture settecentesche di alcuni brani, è Amazing Grace: il suo primo album strumentale che raccoglie frammenti sparsi – ecco evocata una delle epifanie novecentesche che spillano il lavoro –suonati negli anni novanta e occasionati da commissioni festivaliere come la dozzina di pezzi confezionati per centenario montaliano o per pièce teatrali, perlopiù non realizzate: «lasciati in quei cassetti dove giace ancora qualcosa e che prima o poi, chissà, uscirà. Come hanno fatto queste piccole cose» che contengono però l’essenza stessa della musica dell’ex-avvocato: Chopin, Satie «che porta pure un po’ sfiga», il jazz degli anni 20-30, «quello a mio avviso più rivoluzionario».

Conte è un fiume in piena e aggiunge: «Non vi è un filo narrativo nella disposizione dei brani. Suonano bene, tenevo a questo. I titoli dati alle tracce non hanno rapporti con le stesse. Mi piacevano e se vi dicessi quanti ne succedono prima di trovare quelle definitivi tra le mie scartoffie» – e sono tutti molto «contiani»: dalla circense e felliniana Pomeriggio zenzero alle virate bachiane, rilette attraverso la generazione dell’80, di La Danse o il jazz non jazz di F.F.F.F. (For Four Friends) e Fuga nell’Amazzonia in re minore fino a Sirat Al Bunduqiyyah, struggente omaggio all’Oriente di Favola di Venezia di Hugo Pratt.