Questa mattina alle 11 una delegazione del Forum italiano dei movimenti per l’acqua incontra il presidente della Camera. A Roberto Fico viene consegnato l’appello accompagnato da 43mila firme contro la quotazione dell’acqua in Borsa, ultimo stadio della finanziarizzazione del bene comune denunciata dal dicembre scorso da Pedro Arrojo-Agudo, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul Diritto Umano all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, ieri sera ospite del Forum per un dibattito online organizzato in occasione del World Water Day.

«Portiamo all’attenzione di Fico l’appello perché pensiamo che anche il Parlamento si possa attivare per scongiurare l’avvio della commercializzazione di prodotti speculativi come i future sull’acqua almeno all’interno del mercato borsistico italiano» spiega Paolo Carsetti, coordinare del Forum italiano dei movimenti per l’acqua. «Vorremmo che il presidente della Camera si faccia carico di questo tema, anche perché il governo – nella persona del nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi – non ha dato riscontro alla nostra richiesta e solo il Parlamento ci ha offerto una interlocuzione» aggiunge.

Sono passati quasi dieci anni dal referendum «2 sì per l’acqua bene comune»: si può dire che voi promotori avevate intuito tutto questo?
Purtroppo era uno scenario prevedibile: non si sapeva il quando, ma si sapeva il dove, nel senso che era naturale che la quotazione sarebbe avvenuta negli Stati Uniti, precursori di questa nuova dinamica. Era inevitabile laddove non si fosse messa in atto una iniziativa contro la mercificazione dell’acqua, e questo lo abbiamo sempre denunciato, abbiamo sempre detto che da una privatizzazione classica – l’affidamento della gestione del servizio idrico integrato a privati – si era già arrivati alla finanziariazzione, con la quotazione in Borsa e la partecipazione di fondi d’investimento al capitale delle società.

Oggi arriviamo a chiusura o all’apice di questo processo, con quotazione fisica dell’acqua in Borsa. Solo chi non voleva vedere la direzione intrapresa continuava a ripetere che non c’era un rischio di questo tipo, in particolare lo ha sottaciuto chi si opponeva al referendum affermando che che l’acqua sarebbe comunque restata un bene pubblico, di proprietà pubblica, e che ai privati si sarebbe affidata solo la gestione.

A dieci anni dal referendum, qual è la situazione in Italia?
Ci sono cinque grandi società, utility quotate in Borsa (A2a, Acea, AcegasApsAgsm, Hera, Iren, ndr) e quello continua ad essere il modello che si vorrebbe esportare in tutta Italia. Lo si fa non con un nuovo disegno quadro di riorganizzazione del settore, com’era il decreto Ronchi abrogato dal referendum, ma con piccole norme inserite in tanti provvedimenti che passo dopo passo favoriscono l’allargamento del territorio di competenza e di influenza delle multiutility. L’ultimo esempio è il Recovery Plan, che – almeno nella versione del precedente governo – prevedeva una riforma della governance del servizio idrico per estendere anche al Sud Italia il modello di gestione delle multiutility.

Secondo alcune indiscrezioni, questa misura dovrebbe uscire rafforzata dall’aggiornamentoche sta portando il governo Draghi. Si vorrebbe obbligare ad arrivare entro il 2022 all’affidamento a un soggetto considerato efficiente, pena la mancata erogazione dei fondi per gli investimenti prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si tratta per noi di una riforma paragonabile a quella del decreto Ronchi: si andrebbe verso una privatizzazione usando le risorse del Recovery Plan.