Colto ma sempre umile, verace e creativo. Sempre concentrato, allegro senza tradire fragilità neanche di fronte alla prova ostile di rivisitare il rock, universo distante da lui ma non troppo, dei Radiohead. Paolo Angeli, chitarrista sardo, musicista in grado di cantare il Mediterraneo come il free jazz, l’avanguardia come la tradizione dell’isola, pubblica in questi giorni 22.22 Free Radiohead, una lunga opera dove mescola classici della band di Thom Yorke e frammenti di repertorio originale ispirato a loro ma non solo. «Il mio modo di accostarmi alla musica è molto simile a quello di Symphony for Improvisers di Don Cherry, nel quale dava ampia libertà ai musicisti ma richiedeva l’utilizzo di aree strutturate che veicolavano un’idea di free organizzato», racconta Angeli.

PERCHÉ proprio i Radiohead? «Una scoperta casuale di un paio di anni fa. Mi ha affascinato la loro capacità di rimanere riconoscibili anche con fratture nella loro poetica; di abbandonare i ruoli convenzionali all’interno di una band e di prediligere il risultato di insieme più che l’affermazione dell’individualità». Paolo Angeli suona una chitarra sarda preparata a 18 corde, che è un po’ tutto, con martelletti, eliche e stregonerie varie che utilizza con sapienza certificata. Ne esistono tre esemplari, tutti usciti dalle mani di Francesco Concas della liuteria Stanzani: «La mia attuale è una copia costruita per Pat Metheny». Classe 1970, originario di Palau, nel suo disco ci sono momenti in cui pare di ascoltare il post rock di Chicago e il noise, però subito dopo compaiono i riferimenti alle musiche da film di Morricone con tanto di fischio in primo piano, frammenti di quel canto monodico con accompagnamento di chitarra che è stato materia della sua tesi di laurea al Dams a Bologna, dove ha vissuto prima di stabilirsi a Barcellona.

«È IL MIO ALBUM più rock», ci dice, eppure dopo poco racconta: «A partire dal 1993 ho fatto bottega per dieci anni con Giovanni Scanu, il più vecchio chitarrista di musica sarda. Sono stato travolto dalla bellezza dei cori a Tasgia (polivocalità gallurese) e a cuncordu (canti della settimana santa). Poi mi sono confrontato con il lavoro della digitalizzazione dell’Archivio Cervo, la più importante fonoteca al mondo dedicata alla Sardegna e le sue musiche. Il mio maestro mi chiamava ‘l’inglese’ perché il mio ambito di provenienza era il rock. In un certo senso dedicare un album a una band britannica l’ho vissuto come un sano tradimento delle radici. Il tradimento è alla base del testo di Andira e Notti d’ea di Baignu Pes, poeta del 1700. Un’altra sezione del testo racconta la crisi creativa, l’abbandono delle muse e della quiete serena, dei pastori dell’arcadia che rifiutano al poeta l’accesso tra i suoi cantori. Registrare questo album è stata per me la necessità di un confronto».