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Paola Di Mitri: «Nei territori devastati l’archivio è come un’ancora»

Paola Di Mitri: «Nei territori devastati l’archivio è come un’ancora»Un’immagine di «Da qui in poi ci sono i leoni»

Intervista L’artista presenta la sua installazione documentaria «Da qui in poi ci sono i leoni» visitabile a Romaeuropa fino a domenica 15 ottobre

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 11 ottobre 2023
Paola Di Mitri

«Caro futuro, io vorrei da te che non ci fosse più l’Ilva, così tutti respirano meglio, e chi ha i tumori non soffre più. Per Taranto io vorrei tante cose belle. Quindi io futuro ci credo in te. Ciao futuro!». Il volto di Cristiana, 11 anni, è uno dei tanti che abitano Da qui in poi ci sono i leoni, video installazione documentaria di Paola Di Mitri, inaugurata ieri al Mattatoio per Romaeuropa Festival (visitabile fino al 15 ottobre). Un viaggio di suoni, voci e immagini che uniscono luoghi distanti ma simili della penisola italiana dove l’azione dell’uomo ha modificato il paesaggio: il tempo si è rotto, il futuro non arriva più. Taranto, Carbonia e il Sulcis Iglesiente, La Spezia e Le Cinque Terre, le Alpi Apuane, la Val di Susa. Terre di lavoro, conquista, sfruttamento delle risorse. Sventrate, adorate, abbandonate. Il presente, raccontato grazie a un’inchiesta sul campo, stride col prezioso materiale d’archivio che lo spettatore può consultare in una sorta di stanza della memoria. È uno scavo emotivo, un esercizio di immaginazione collettivo la nuova creazione di Paola di Mitri, 39 anni, barese che ha vissuto quasi tutta la sua vita fuori: da anni lavora sulla frizione tra linguaggi e codici diversi per raccontare la realtà. Da qui in poi ci sono i leoni segue Vita Amore Morte e Rivoluzione, lavoro tra teatro e documentario che torna in scena a fine mese (27-29 ottobre Teatro Basilica Roma, 7-8 novembre Cubo Fertili Terreni Torino, 10 novembre Teatro Herberia Rubiera). Ne abbiamo parlato con la regista.

Come sei arrivata al teatro documentario?

Nasco come performer, dopo che la mia compagnia La ballata di Lenna si è sciolta, ho incontrato Cranpi, produttore dei miei lavori, e Davide Crudetti, regista di documentari. Ci siamo contaminati, ho iniziato a andare verso il recupero del materiale di archivio, mescolandolo con la scena. C’è una drammaturgia scenica e una di quello che accade nella vita fuori, attraverso il materiale di archivi storici o familiari. Come un cartografo o un documentarista, la ricerca si fa andando. La questione è nel vedere, portare il dato.

Questo meccanismo è anche alla base di «Vita Amore Morte e Rivoluzione».

Mio papà è morto di tumore ai polmoni. Taranto per me era la città delle feste, ci andavo a trovare i nonni. Quando papà si è ammalato, mi disse: «Vedi, anche se scappi, Taranto ti ricorda sempre da dove vieni». Sono passati dieci anni. Mi chiedevo che diritto avessi a raccontare non avendoci vissuto. La mia storia familiare era un pretesto per andare oltre la narrazione mediatica. Ho fatto laboratori con cittadini, operai, cassintegrati. I tarantini mi hanno incluso nella comunità e mi hanno legittimato a raccontarla.

Come nasce «Da qui in poi ci sono i leoni»?

Volevo allargare il racconto, la gente si riconosceva in quella storia, era qualcosa che stava accadendo nei loro territori. Ci siamo detti: risaliamo la penisola, andiamo a rintracciare cosa stiamo lasciando alle generazioni future. Siamo partiti lo scorso maggio, abbiamo trascorso due mesi in viaggio. Arrivavamo e costruivamo il gruppo grazie a associazioni, gruppi teatrali. Andavamo a filmare i paesaggi, il pomeriggio facevamo i laboratori con gli abitanti. Si è creata una sinergia con tutte le realtà incontrate. È stato un lavoro di relazione, ogni contatto apriva delle porte, abbiamo costruito una mappatura del territorio a partire dai luoghi importanti per ciascuno. Abbiamo messo su un piccolo set: erano da soli quando registravano. Quando abbiamo ripreso i loro ritratti, stavano ascoltando la propria voce come se arrivasse dal futuro.

Questa mappatura dei territori ha a che fare con la costruzione di nuovi immaginari?

La rilettura delle mappe mi affascina da sempre. Faccio dei laboratori di cartografia, le persone lavorano a partire dai documenti di archivio per riscrivere una cartografia emotiva degli spazi in cui vivono. Osserviamo come i territori per mano dell’uomo cambino nel tempo, come viviamo questo cambiamento. Gli antichi cartografi cercavano di essere molto fedeli nel disegnare le mappe, lì dove non riuscivano a valicare disegnavano un leone. Inventavano un personaggio che generava miti, racconti. Era un modo per andare oltre l’ostacolo. Ci troviamo in un momento in cui il futuro spaventa molto, e il dato di quello che succederà è abbastanza certo. Ci rifacciamo al dato, sempre meno all’immaginazione. L’istallazione è un modo per guardare con occhi diversi il paesaggio reale, per capire come li immaginiamo questi leoni, cosa c’è dietro. Non c’è immaginazione politica, sociale: non è un tempo di visionari, questo. Non si riesce a immaginare a livello individuale ma forse si può fare uno sforzo collettivo, ognuno ci mette un pezzo.

L’installazione è costruita con materiale di archivi storici o familiari: come interagiscono tra loro?

Negli archivi familiari degli anni ’50 e ’60 la visione del futuro è legata alla prosperità: ci sono tantissime scene di feste, aggregazioni. Siamo andati a filmare gli stessi luoghi oggi: c’è un abisso rispetto a quello che sono diventati ora, sia a livello di desolazione, ma anche di invasione. Per esempio a Taranto stanno costruendo un water front dove far attraccare le crociere. I ragazzi della Città Vecchia sanno che dovranno andar via, le loro case diventeranno tutte b&b. La mia è una provocazione artistica, un tentativo di riappropriazione di un immaginario politico, di come si vorrebbero i paesaggi e le città, per non abbandonarsi a questa china su cui stiamo scivolando. Nell’incertezza del futuro l’archivio è come un’ancora. Non volevo che ci fosse un perfomer sulla scena, ma l’intervento del pubblico che s’immerge attivamente nelle immagini di archivio. Siamo tutti abituati a filmare, ma perdiamo i dati perché non li cataloghiamo: cosa stiamo lasciando indietro?

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