«Bello vero?» Il leggendario sigaro sempre spento tra i denti, le gambe lunghissime accavallate e l’espressione soddisfatta. Melvin Van Peebles, padre riconosciuto e zingaro aristocratico del contemporaneo cinema nero (di cui rimane una delle figure più eversive e pittoresche) è contento. Dopo un ventennio di gestazione, Panther, è diventalo un libro e anche un film. Simpatico, sornione, elusivo, cocciuto (nessuna risposta a cose che non avessero esplicita attinenza al film) e visionario.

«Panther» è nato come libro: quando lo hai scritto e perché hai scelto il formato romanzo?
Quando l’ho iniziato, non era nemmeno fiction: era fantascienza. L’idea mi è venuta prima del ’76, quando anche il Congresso ha ammesso che l’Fbi era intervenuta. Scegliere la fiction, per me, significava poter parlare di molte cose che anche oggi si negano. In più, volendo raccontare una storia coerente, ho dovuto inventare un protagonista che potesse «esserci» sempre, quando Huey o Bobby erano in prigione, per esempio. Era importante, per me essere sicuro che le cose che sono successe, nel film, fossero molto chiare, perché spesso la gente cammina attraverso il ghetto, la comunità e la storia dei neri, a forza di supposizioni o traendo conclusioni completamente sbagliate.

Nel ’71, le Black Panthers hanno dedicato al tuo film «Sweet Seeetback’s Baadasssss Song» un numero della loro rivista. Quali erano I tuoi legami con il gruppo?
Io ero più vecchio, avevo una carriera e una famiglia, loro erano dei ragazzini. Ma certo ero un grosso simpatizzante. Feci concerti a favore delle Black Panthers e sulla copertina del mio primo disco, Brer souls, c’era scritto «Free Huey» molto prima che diventassero famosi.

Quanto ci è voluto a fare il film? È vero che volevano una bianco che facesse la Black Panther, magari Tom Cruise?
Quello e altro… lo avevo fatto vedere il manoscritto del romanzo a mio figlio Mario 9 anni fa. Mi ha detto che sarebbe stato un gran film e che mi avrebbe aiutato a realizzarlo. 4 o 5 anni dopo, quando con Posse e New Jack City il suo status è cresciuto, ho scritto una sceneggiatura e l’abbiamo portata a Hollywood. Avevamo anche trovato qualcuno a cui interessava, ma poi hanno cominciato a cercare di attenuare le implicazioni politiche. Così abbiamo contattato una compagnia straniera (la Working Title, ndr) che non aveva le stesse esigenze e che è stata disposta a darci il final cut. L’unica condizione era che tenessimo il budget basso: con meno di 10 milioni di dollari, abbiamo fatto un film che a Hollywood ne costerebbe 40.

Pensavo a «JFK» a «Malcolm X»… il vostro film evita con estrema attenzione l’agiografia ma anche la mitizzazione di uno o due personaggi. Newton e Seale, per esempio…
Le pantere avevano una forte base di potere nelle comunità: vero «power to the people». Hanno cercato di organizzarsi in modo che se un leader veniva neutralizzato, la cosa non uccideva tutto il gruppo, come invece era successo in passato. Mi piaceva rendere quell’aspetto. Abbiamo escluso anche la presenza di Mario nel film; dato il contesto in cui agivamo e i problemi in cui saremmo incorsi, non volevamo essere visti come gente che tirava acqua al proprio mulino. E poi, poiché questo è un lavoro sulla comunità, non poteva essere il veicolo di una star. Ci volevano facce nuove, giovani, come le Pantere.

Quali sono state le reazioni dalle ex Pantere e degli attivisti in generale?
È interessante come a certe persone che si considerano di sinistra, il film piaccia ma ritengano la fine – la parte della droga – come una cosa fuori contesto, inventata. Per me quella è la premessa maggiore: il governo ha incoraggiato l’arrivo della droga nelle comunità, anche se non è che la portassero loro: non ne avevano bisogno, c’è sempre stato il potenziale. L’Fbi ha scritto lettere che hanno costretto Jean Seberg al suicidio, aveva piani per avvelenare il cibo dei breakfast programs… È documentato, non capisco perché non ci credano. È una reazione così americana! Dall’altra parte, alcune delle Black Panthers che sono ancora in scompiglio, capiscono che l’Fbi apriva la loro posta, manipolava le loro comunicazioni ma non realizzano che di certi loro disaccordi interni probabilmente bisogna ringraziare proprio l’Fbi. O meglio lo capiscono in teoria ma sembrano confusi dalla pratica. Cosa che io trovo curiosa.

Guardando il film viene spontaneo notare il diverso ruolo che hanno oggi le armi nella comunità nera…
Per quello c’è la frase del personaggio (Melvin, ndr) che dice «Attenzione! quando i neri avranno le armi in mano si spareranno a vicenda». Noi siamo stati programmati por ucciderci a vicenda. Io credo che il film sia contro la droga e contro le pistole. Il fatto è che molti tra i ragazzi di oggi hanno l’atteggiamento smargiasso delle Pantere ma non l’ideologia politica.

Estratti dall’inserto «Suq»
del 20 maggio 1995