Il compito è di quelli difficilissimi, riaprire un caso dieci anni dopo, con le prove che, se mai fossero esistite, adesso sono sicuramente sparite nel nulla. Marco Pantani fu ritrovato morto il giorno di San Valentino del 2004 nella stanza D5 del residence «Le Rose» di Rimini. Overdose di cocaina, il responso dell’autopsia. Il processo si è chiuso nel 2011 in Cassazione con il patteggiamento di due spacciatori che gli avevano venduto la coca, mentre un terzo indagato venne assolto.
L’ingloriosa fine dell’ultima leggenda del ciclismo italiano, abbandonato alla deriva con tutti i suoi fantasmi, le mille paure che l’hanno sempre accompagnato, persino quando in salita staccava tutti. Non tanto per vincere ma «per abbreviare l’agonia», come dichiarò una volta a Gianni Mura.

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La scenografia è la riviera romagnola d’inverno, le spiagge vuote e perennemente grigie, il lungomare deserto, le luci che si spengono presto quando scende la sera.

O forse no, qualcuno ha ammazzato Marco Pantani. Prima lo ha stordito e poi gli avrebbe fatto bere la cocaina. La procura di Rimini, accogliendo un esposto presentato dalla famiglia del Pirata, ha deciso di riaprire l’inchiesta, sul fascicolo c’è scritto che l’ipotesi di reato è «omicidio volontario a carico di ignoti». A guardare bene i fatti, in effetti, i dubbi sono tantissimi e, se non altro, l’unica cosa certa al momento è che le indagini ai tempi furono parecchio approssimative: prove non analizzate, il clamoroso mancato coinvolgimento della polizia scientifica, l’anomalia incredibile di un medico legale che si portò a casa il cuore di Pantani e lo nascose in una scatola di biscotti, temendo che qualcuno potesse rubarlo. Sembra il plot di un giallo di serie C, ma, si sa, «qualche volta la realtà è più strana della finzione» e quelle che ogni sceneggiatore riterrebbe circostanze inverosimili sono paragrafi di verbali e atti giudiziari. La ricostruzione che si legge nei faldoni affidati alla giovane pm Elisa Milocco è questa: prima di morire, Pantani non era solo e allucinato dalla cocaina, ma avrebbe aperto le porte al suo assassino, forse qualcuno di cui si fidava, un conoscente lasciato entrare senza troppi problemi. In breve, però, i due avrebbero cominciato a litigare sempre più violentemente, Pantani – questo è accertato – chiamò per due volte la reception del residence chiedendo aiuto, ma venne ignorato entrambe le volte. Poi sarebbe stato aggredito fino a perdere i sensi. A quel punto l’assassino avrebbe sciolto la cocaina in una bottiglia d’acqua (si vede nelle registrazioni video fatte dieci anni fa dagli investigatori, ma a nessuno è mai venuto in mente di analizzarla) e l’avrebbe fatta bere al Pirata, uccidendolo. La quantità di droga ritrovata in bocca a Pantani ne avrebbe potute scatenare sei, di overdose. Decisamente troppo per essere un colpo basso del caso.

Suggestioni? La tesi dell’incidente con la cocaina (unica attuale verità giudiziaria) ha dalla sua dei particolari non trascurabili: la porta dell’appartamentino, come testimoniato dal portiere dell’albergo, era chiusa dall’interno e, per di più, sbarrata da diversi oggetti. Stesso discorso per le finestre. Se un assassino c’è stato, come avrebbe fatto a entrare? Poi ci sono gli spacciatori, che vennero trovati in breve e confessarono praticamente subito di aver venduto la roba al campione. Il corpo di Pantani era riverso a terra, martoriato, con il lenzuolo del letto arrotolato intorno a una gamba, la stanza era ridotta a un caos, conseguenza, ancora secondo chi indagò, di un delirio da cocaina. Stesso discorso per le lesioni – undici in totale, superficiali, quasi tutte sul volto -, considerate atti di autolesionismo. Il corpo, è vero, fu trascinato da una parte all’altra della camera, ma la responsabilità sarebbe dei sanitari del 118, che tentarono, senza esito, una rianimazione.

Particolari, pesi, contrappesi, elementi d’indagine: nel regno delle ipotesi investigative, ogni cosa può voler dire tutto e il suo contrario. Servono riscontri, prove, passaggi logici inattaccabili. Adesso sarà difficile, anche perché la scena del delitto non esiste più: il residence «Le Rose» fu demolito poco dopo quel 14 febbraio.

Tutto poi è immerso nell’atmosfera del paese delle congiure e dei complotti: l’alone di leggenda si può quasi tagliare con il coltello. Gli elementi ci sono tutti e la stralunata biografia di Marco Pantani offre spunti a volontà. Dire «genio e sregolatezza» quando si parla di Pantadattilo è un eufemismo: quando era piccolo, si racconta che andasse a scuola con il coltello, ma «per difendere i più deboli». Poi l’inizio sulle due ruote, gli infortuni che lo hanno spaccato, prima di diventare uno dei più grandi scalatori di tutti i tempi, l’accoppiata Giro-Tour del 1998 entrata direttamente nei libri di storia, lo sguardo liquido, relativamente bello (più relativo che bello), la bandana, i fatti di Madonna del Campiglio e quella positività al doping mai accettata veramente come hanno fatto tutti gli altri, che si sono lasciati squalificare per poi tornare in pista come se nulla fosse. E ancora, la lettera di Renato Vallanzasca a mamma Tonina, con la soffiata arrivata da un esperto di scommesse clandestine: «Il Giro non lo vincerà sicuramente lui». E così fu.

La caduta, il grande ritorno, la depressione, le storiacce (vere) di droga, le immancabili cattivi abitudini, le compagnie peggiori, la morte solitaria in una stanza d’albergo o forse l’omicidio praticamente perfetto, il malinconico tramonto dell’eroe, la sconfitta che va oltre la sconfitta stessa. Le telecamere accese, la luce rossa della diretta che non si fermata mai, la cronaca che, come spesso accade, diventa voyeurismo allo stato puro. Il suo ricordo, adesso, è fissato in un capolavoro del kitsch: la biglia gigante del Mercatone Uno di Imola, quella con Pantani vestito dalla maglia rosa, gli occhi da alieno, la fatica negli angoli della bocca. Chiunque ci sia passato davanti in macchina percorrendo la A14 da Bologna alla riviera sa di cosa si parla.

Capita sempre così, passata l’ora della fine: da Elvis a Kurt Cobain, ogni morte diventa leggenda, e le voci si moltiplicano e s’intrecciano nella vulgata popolare, fino al punto in cui la verità non solo risulta impossibile da trovare ma, tutto sommato, non conta più niente. È così che muore un mito.

Anche questo ha contribuito a fare di Pantani una rockstar, non un atleta. La sua sola presenza era qualcosa di più delle classiche dichiarazioni post gara, quando si è stravolti dalla stanchezza e la trance agonistica porta a discorsi per lo più sconclusionati tra frasi fatte e libere interpretazioni dei cronisti sportivi. Lui no, mai. La cognizione del dolore del Pirata è sempre stata di una lucidità disarmante, quel male di vivere che qualcuno ha messo in versi, qualcun altro in prosa e lui sui pedali.