Marcello De Cecco definiva le attuali scelte espansive delle banche centrali come «vicarie» della politica. Effettivamente non c’è stato summit, dal G7 al G20, o organismo sovranazionale che abbia espresso scelte concrete e in buona misura coordinate per provare a fronteggiare la crisi. In questi ultimi anni le banche centrali sono diventate il principale player nello scacchiere economico globale. Grazie a un profilo sempre più ibrido giocato tra l’efficacia e la credibilità di un organismo statale e la prontezza, l’autonomia e la discrezionalità di uno privato. Il loro protagonismo ha consentito di stabilizzare il contesto, di evitare l’instabilità, ma non ha favorito una vera ripresa. Nessuna precipitazione sistemica, è rimasto però lo stallo. Paradossalmente l’inedita quantità di moneta immessa ha favorito una ripresa delle guerre valutarie, i tassi negativi che hanno depresso ulteriormente il mondo del credito e il ritorno della speculazione e del turismo finanziario. La serie di dati giunti questa estate confermano il panorama stagnante: deflazione, riduzione di investimenti e consumi, modesta ripresa occupazionale. Comincia così a farsi strada l’ipotesi di un ritorno degli Stati attraverso politiche fiscali, ma al momento il boccino sembra lasciato saldamente in mano alle banche centrali.

La timidezza e l’incapacità dei governi non fanno prevedere soluzioni a breve da questo versante. I dati al di sotto delle attese negli Usa allontanano il rialzo dei tassi per la Fed, le borse festeggiano, confermando la mancanza di autosufficienza della ripresa americana. Resta la cosiddetta central banking (ruolo economico e giuridico della banca centrale), anzi nella misura in cui si rivela insufficiente, si discute su come rafforzarla in attesa che qualche altra variante entri in gioco. La scorsa settimana l’Economist sollevava il problema della inadeguatezza dei target delle banche centrali. L’obiettivo dell’inflazione al 2%, fu ideato negli anni Novanta per rispondere a problemi di altri tempi. Oggi il rischio è la tendenziale deflazione, non il surriscaldamento dei prezzi. Il settimanale britannico, dunque, si domanda come meglio perseguire l’obiettivo di una ripresa dei prezzi attraverso un cambio degli obiettivi formali. Da qui la proposta di un target al 4% dell’inflazione che consentirebbe alla banca centrale di far prevedere un intervento di maggior respiro, con tutto ciò che potrebbe innescare tra gli attori economico-finanziari. Oppure un’opzione ancor più radicale potrebbe essere quella di individuare nuovi target come la crescita del Pil nominale, al netto dell’inflazione, per consentire un deciso ampliamento della massa di manovra della banca centrale. L’Economist è consapevole che cambiare target non è cosa semplice, ma sottolinea come sia «Time for a new era».

Un tentativo per delimitare il tanto contestato potere discrezionale alla banca centrale, ma ampliandole a tal punto gli obiettivi da tranquillizzare il sistema finanziario nella sua costante e prolungata azione di accompagnamento. Capra e cavoli, insomma.

Dopo la crisi, dunque, si prosegue nel solco di quello che Riccardo Bellofiore chiama «keynesismo finanziario», un modo per continuare a tentare di salvare la finanza a mezzo della finanza, senza rimettere in discussione i fondamentali degli attuali meccanismi di funzionamento. Un’operazione duttile, che prova ad affrontare difficoltà inedite, in grado di prendere ulteriore tempo e al contempo garantire i poteri costituiti attraverso l’azione stabilizzatrice della sfera pubblica. Per quanto durerà? Fino a quando si potrà non riassorbire l’immensa massa monetaria prodotta? L’impressione è che non si possa attendere un crollo endogeno, senza protagonismo di nuove soggettività socio-economiche e politiche il cambiamento non potrà arrivare.