Scarseggiano i film americani a Cannes 2018 e anche di film italiani ce ne sono pochi, ma due sono in concorso (Matteo Garrone e Alice Rohrwacher), abbondano i film francesi anche perché basta una piccola quota di produzione perché assumano questo marchio, e poi niente Netflix che ha ritirato il suo pacchetto di film e soprattutto The Other Side of the Wind di Orson Welles il film rimasto incompiuto e portato a termine dopo 46 anni. L’anticipazione dei film per la stampa è stata abolita con grandi proteste da parte dei critici. I film più attesi cono quelli di Spike Lee, Godard, Terry Gilliam, il ritorno (fuori concorso) di Lars von Trier con The House that Jack Built, dopo essere stato bandito dal festival dal 2011 per le sue dichiarazioni sul nazismo a cominciare da «capisco Hitler» per finire con «sì sono nazista» uno scherzo, disse, fatto ai giornalisti.

IL LATINOAMERICA

Il resto del mondo è ben rappresentato a Cannes, anche se tutti i film latinoamericani sono stati rinchiusi come in una riserva indiana per lo più nella sezione Un Certain Regard e in altre sezioni. In qualche modo sono omaggiati con sapore latino dal film di apertura Todos lo saben dell’iraniano Asghar Farhadi interpretato da Javier Bardem, Penélope Cruz e Ricardo Darín.

Dal programma dei classici restaurati arriva come manifesto programmatico nell’anno del ’68 La hora de los hornos di Fernando Solanas e Octavio Getino (1966-68) che fondarono il gruppo Cine Liberacion, primo esempio di cinema militante in Argentina, girato durante il governo militare di Ongania per combattere il potere dominante, organizzato teoricamente secondo criteri che capovolgevano le strategie commerciali, utilizzando spezzoni di girato che servivano da citazioni (come Tire Dié di Fernando Birri o le immagini del Che). Si chiamò per questo il terzo cinema (non per importanza, ma a segnalare la distanza da Usa ed Europa) e specificava nel sottotitolo: «Note e testimonianze sul neocolonialismo, la violenza e la liberazione». Diffuso clandestinamente in copie che non erano mai uguali a seconda delle comunità a cui veniva poietttato, ha avuto una diffusione internazionale, diventando un punto di riferimento in ogni paese.

Meriterà attenzione il film argentino El Angel di Luis Ortega al Certain Regard (dove Benicio Del Toro è presidente di giuria), coprodotto da Almodovar, con un cast che raggruppa star come Ricardo Darín, Cecilia Roth, Mercedes Morán e Daniel Fanego. Si tratta di un sorprendente intreccio tratto dalla cronaca nera degli anni Settanta: l’angelo biondo interpretato da Lorenzo Ferro è l’assassino Carlos Robledo Puch, conosciuto come «el angel de la muerte» che non ancora ventenne uccise almeno undici persone, condannato all’ergastolo ormai più di quarant’anni fa. Luis Ortega è nato a Buenos Aires nel 1980 e ha realizzato il suo primo film a diciannove anni.

Un altro film argentino è l’horror fuori genere Muere Monstruo Muere di Alejandro Fadel (classe 1981) girato nella zona da cui proviene, in provincia di Mendoza, dove non mancano i luoghi inquietanti come la Caverna de las brujas (la caverna delle streghe). Fadel vinse alla Semaine de la critique con Los salvajes (2012) ha sceneggiato La leonera di Pablo Trapero.

Alla Quinzaine da Tucuman (nord dell’Argentina) Augustin Toscano presenta El Motoarrebatador, storia di un ladro pentito, suo secondo film dopo Los dueños (2013) firmato con Ezequiel Radusky.

Un grande ritorno è quello di Carlos Diegues, quest’anno in una proiezione speciale con O grande Circo Mistico. Uno dei fondatori del Cinema Novo brasiliano, che firmò l’episodio Escola de samba nel film collettivo Cinque volte favela (’62), regista passato ininterrottamente attraverso le più diverse epoche, dagli anni ruggenti del nuovo cinema, al periodo della dittatura, quando ottenne il più clamoroso successo popolare con Xica da Silva (’77) sulla tematica dello schiavismo da lui sviluppata costantemente in vario modo. La sua ultima presenza a Cannes è stata con Quilombo nell’84. E ancora alla Quinzaine dalla Colmbia Cristina Gallego e Ciro Guerra con Pajaros de verano film sui trafficanti di droga e dal Messico Comprame un revolver di Julio Hernandez Cordon: una ragazza si traveste da maschio con catene e maschere per sopravvivere nella società violenta. Il regista nato in North Carolina da padre messicano e madre guatemalteca è diventato famoso per Gasolina

AFRICA E MEDIO ORIENTE

Su tutto il cinema africano presente al festival (molti sono gli esordi) fanno da punto di riferimento le presenze autorevoli di tre classici restaurati: Il destino di Youssef Chahine, che fu Palma d’oro alla carriera nel ’97, da rivedere ancora oggi per la sua attualità, un film di avventure del pensiero che contrappone fondamentalismo e Averroè.

Fad’Jal (1979) della pioniera Safi Faye (Lettre paysanne fu distribuito anche in Italia) la prima regista africana a raggiungere fama internazionale: gli abitanti del villaggio senegalese Fad’Jal da cui ha origine la sua famiglia, raccontano la storia del villaggio e le difficoltà dei lavori agricoli. Safi Faye si dedica al cinema incoraggiata da Jean Rouch, dopo l’università ottiene un master in etnologia alla Sorbona con una tesi sul suo gruppo di appartenenza Serere. Il terzo classico è Les Hyènes (1992) del senegalese Djibril Diop Mambety il più sperimentale tra i registi subsahariani, scomparso nel ’98 lasciando una eredità di immagini e idee cinematografiche che fanno ancora scuola, stregone del cinema, attore del teatro nazionale, premio speciale della critica al suo esordio a Cannes con Touki Bouki nel ’73.

Con rare eccezioni il cinema africano ha fatto la sua comparsa in concorso al festival di Cannes, tra gli ultimi Abderramane Sissako con il folgorante Timbuctu nel 2014: quest’anno in concorso c’è l’Egitto (in coproduzione con l’Austria) con Yommedine di Abu Bakr Shawky, storia di un uomo che lascia il lebbrosario dove era stato abbandonato da piccolo e si mette alla ricerca della sua famiglia. E torna la regista libanese Nadine Labaki (Caramel) con Cafarnaum, il secondo dei suoi film presentati a Cannes dopo Dove andiamo”.

Altri film africani li troviamo al «Certain Regard»: un esordio dal Maghreb Sofia (di produzione belga) della cineasta marocchina Meryem Benm’Barek, una donna cerca di rintracciare il padre di suo figlio per non essere denunciata come ragazza madre. Il Kenia è per la prima volta rappresentato a Cannes da con Rafiki storia di un amore tra due donne ostacolato da famiglie e società, secondo lungometraggio della cineasta Wanuri Kahiu, dal romanzo della scrittrice congolese Monica Arac de Nyeko. Debutta a Cannes anche la regista siriana Gaya Jiji con My Favorite Fabric (produzione Francia Germania Turchia), una giovane donna alla scoperta di sé in un bordello di Damasco alle prime avvisaglie della guerra civile, ispirato, dice la regista, a Belle de Jour. Un film dalla lunga gestazione, iniziato a Damasco nel 2011 e portato avanti a Istanbul nel 2017 grazie anche a Women in Motion, premio ricevuto a Cannes nel 2016.