Erwin Panofsky

 

L’Et in Arcadia ego del Louvre (1638 circa) fu il più celebre dei dipinti di Nicolas Poussin tra il Sette e l’Ottocento, uno status che la tela avrebbe cominciato a perdere all’inizio del Novecento, più o meno quando, nel 1936, il grande storico dell’arte tedesco Erwin Panofsky (Hannover 1896-Princeton 1968) gli dedicò un suo fortunato e discusso saggio. Ancora nel 1979, peraltro, il capolavoro del Louvre era indicato come «una delle immagini più memorabili dell’arte occidentale», ma quell’apprezzamento così incondizionato (che oggi forse pochi sottoscriverebbero) era forse anche figlio del fascino esercitato dalla geniale lettura panofskiana, che aveva contribuito al rilancio del prestigio della tela, almeno tra gli studiosi, in anni in cui l’autorevolezza del padre dell’iconologia moderna, pur già più volte messa in discussione, era ancora ben lungi dall’essere offuscata da revisionismi non meno eccessivi di quanto pervasiva era stata precedentemente la sua influenza sulla disciplina storico-artistica al di qua e al di là dell’Atlantico.
Nel 1983 il filosofo post-strutturalista francese Louis Marin avrebbe sottoposto a una serrata analisi quel saggio di Panofsky, e la sua seconda versione del 1955, letti entrambi in rapporto stretto con il più importante contributo teorico dello studioso, ovvero il saggio di apertura degli Studies in Iconology del 1939, dove veniva formulato il ben noto metodo dei tre livelli di lettura dell’opera d’arte (pre-iconografico, iconografico, iconologico; con, rispettivamente, i correttivi della storia dello stile, dei tipi e dei simboli culturali). E sarebbe poi giunta nel 1993 la confutazione della lettura panofskiana da parte di un altro filosofo francese prestato alla storia dell’arte, Claude Lévi-Strauss, una confutazione che di nuovo chiamava in causa quei tre livelli di lettura, e la tesi dello studioso tedesco secondo cui un cambiamento della forma porta con sé un cambiamento di significato. Due filosofi, si noti, impegnati nell’analisi del significato da attribuire a un dipinto del peintre philosophe per eccellenza: il saggio di Panofsky del 1936 era uno fra i primi dei tanti, forse troppi interventi sui soggetti affrontati da Poussin e le allusioni da individuare in essi, un filone di studi non ancora esaurito che già nel 1965 era il bersaglio critico di Denis Mahon; ma Panofsky ne era stato solo un incolpevole iniziatore.
Il cambiamento di significato a cui si è qui alluso sarebbe quello da attribuire all’iscrizione sulla tomba da cui il dipinto prende il titolo, iscrizione che compare anche in una precedente interpretazione poussiniana di quel soggetto, la tela oggi a Chatsworth (1627 circa). Secondo Panosky nel secondo Et in Arcadia ego il significato da conferire alla frase classica non sarebbe più quello corretto (per le regole grammaticali latine) di «Anche in Arcadia io (Morte) sono», che ancora funziona per il dipinto di Chatsworth, bensì quello di «Io pure sono nato, o ho vissuto, in Arcadia». Nella versione parigina, quindi, «i pastori d’Arcadia non tanto ascoltano un terribile monito per il futuro, quanto invece meditano soavemente su un dolce passato… In breve, il quadro di Poussin al Louvre non rappresenta più un drammatico incontro con la Morte, ma l’assorta meditazione dell’idea della condizione mortale dell’uomo».
Panofsky arrivava a quella conclusione sulla scorta di André Félibien (che a differenza di Bellori, già nel Seicento, così aveva interpretato il secondo Et in Arcadia ego) ma anche attraverso un lungo percorso nel quale faceva sfoggio della sua cultura davvero eccezionale, ricostruendo la tradizione letteraria del motto pseudoclassico Et in Arcadia ego. Egli metteva quindi in luce quel cambiamento di significato della sua lettura, anche a prescindere dal riferimento ai dipinti di Poussin, nella cultura europea, attraverso le voci (fra gli altri) di Joshua Reynolds e Friedrich Schiller, ma arrivando soprattutto a indicare proprio in Poussin il responsabile di siffatto cambiamento. Si trattava di una tesi ambiziosa, tanto più se si riflette che era stata avanzata dallo studioso a cui si deve, più che a ogni altro, l’imporsi di formule come «programma iconografico» o «consigliere iconografico», divenute pane quotidiano almeno dagli anni quaranta in poi, e mai del tutto abbandonate (anche e soprattutto in Italia).
Le ricerche straordinariamente erudite di Panofsky – ma anche di Fritz Saxl e Edgar Wind (e prima di loro, naturalmente, di Aby Warburg) – a proposito di capolavori, in particolare del Rinascimento, dalla Primavera di Botticelli agli affreschi di Peruzzi alla Farnesina fino all’Allegoria con Amore e Venere di Bronzino, avevano portato al postulato secondo cui dietro quasi a ogni opera dal soggetto particolarmente elaborato o comunque inconsueto ci dovesse essere un uomo di lettere, autore magari di un preciso testo scritto (il programma iconografico, appunto). L’Et in Arcadia ego aveva, per così dire, il suo programma iconografico già incorporato, con quell’elusiva iscrizione che aveva fatto la sua prima comparsa in un dipinto del 1618 circa di Guercino (Palazzo Barberini), in cui l’assenza della tomba e l’accento sul teschio non lasciavano dubbi sul fatto che fosse la Morte a parlare. A Panofsky non interessava tanto scoprire la paternità della massima latina, quanto piuttosto assegnare la responsabilità di quel cambiamento di significato «non a un uomo di lettere, ma a un grande pittore»: e quel passo programmatico era significativamente aggiunto nella versione 1955 del saggio, quella della maturità, dopo che tanti altri possibili «consiglieri iconografici» erano stati supposti dagli studiosi usciti dal Warburg Institute.
Secondo Lévi-Strauss, al contrario, nulla o quasi, a livello di significato, sarebbe cambiato tra la prima e la seconda versione: a parlare sarebbe stata sempre la Morte, evocata dal teschio nella tela di Chatsworth, personificata dalla donna assorta in quella del Louvre (ma Panofsky avrebbe obiettato: del tutto priva di attributi?). Per Lévi-Strauss, come per tanti altri che si sono misurati nell’esegesi della tela del Louvre, si trattava prima di tutto di descrivere l’opera, e trarre le conseguenze da quella descrizione: l’Et in Arcadia ego è diventato un case study del problema del rapporto mai univoco né facile tra parola e immagine (la massima latina e il dipinto prima; il dipinto stesso e le esegesi dopo). D’altronde già nel 1804, in una recensione al Salon, Jean-Baptiste Boutard lamentava come quel dipinto fosse stato descritto innumerevoli volte e in modi completamente diversi, tanto che si faceva fatica a ricostruirne l’aspetto leggendone sui libri.
Nell’analizzare le differenze tra il saggio del 1939 e quello del 1955, Marin rimproverava quasi a Panofsky di essersi ripiegato sulla sola analisi iconografica (con il correttivo della «storia dei tipi», già evocata nel 1936, prima della pubblicazione degli Studies in Iconology), esautorando quella pre-iconografica, ovvero una descrizione attenta della composizione, sulla quale avrebbe puntato nuovamente proprio Lévi-Strauss, con l’accento posto sulla figura femminile. Ma quest’ultimo eludeva quello che era il contributo fondamentale di Panofsky, frutto della sua erudizione mai sterile, ovvero l’individuazione di un innegabile cambiamento di significato attribuito a quella massima latina.
La grandezza di Panofsky stava appunto, prima di tutto, nella sua impareggiabile conoscenza dei testi, classici e post-classici, che ha portato a infinite acquisizioni: se il metodo iconologico nel suo complesso, così come teorizzato nel 1939, poteva prestare il fianco a tante critiche, a partire da quelle già mossegli da Otto Pächt e poi da Ernst Gombrich, e se infiniti sono stati gli abusi interpretativi commessi in nome di Panofsky (o, in misura anche maggiore, di Wind) da parte dei suoi epigoni, questo non toglie che ben pochi siano gli errori attribuibili allo studioso tedesco nel campo delle letture strettamente iconografiche. La questione al centro del saggio poussiniano era particolarmente sottile, ed è forse destinata a non avere una soluzione definitiva: anche di fronte al monumento funerario che Chateaubriand fece erigere a Poussin in San Lorenzo in Lucina, nel 1828, in cui il dipinto del Louvre venne tradotto in un bassorilievo marmoreo, ci si può ancora domandare: è la Morte che pronuncia quella frase, o lo stesso Poussin, lì sepolto?