Esiste un fantasma della modernità. Non è lo spettro di marxiana memoria, che un tempo si aggirava per l’Europa, guardando al domani per dare un senso al presente, bensì quel reciproco inverso dell’identità collettiva che porta il nome di razzismo. Nel suo riflettere, rinnovandole, le immagini deformanti, paurose e paranoidi della società, e dei legami sociali, scimmiotta una certa idea del passato per dichiarare l’impossibilità del futuro. Partendo dalla premessa che nessuna umanità sia biologicamente possibile, il razzismo costituisce il grado zero della conoscenza e del riconoscimento della comunità umana. Poiché preesisterebbe all’organizzazione sociale una differenza inconciliabile tra chi ha caratteri morali e chi invece non li ha, per sua stessa genetica costituzione, sancendo quindi che l’unica società possibile sia quella fondata sull’esclusione dei secondi.
Che il razzismo sia funzionale all’occultamento dei rapporti di potere, alle asimmetrie economiche e sociali e ai vincoli fondati sulla forza, è quasi un’ovvietà che, tuttavia, a molti risulta indigesta. Non di meno, sfugge ai tanti la funzione prescrittiva, e quindi ordinativa, che esso svolge nel discorso pubblico: non solo, infatti, dice cosa una moltitudine di individui non può essere, in ragione delle inconciliabili difformità che l’attraverserebbero, ma indica quello che potrebbe divenire qualora avesse la determinazione di dare corso a politiche della separazione istituzionalizzata. Più propriamente, il razzismo va oggi declinato al plurale, poiché sotto la comune matrice, l’ossessione per l’invasione del proprio io, tradisce una capacità di mutamento che ne garantisce la continuità e la pervasività.
I razzismi non sono lo sgradito residuo di un passato che fatichiamo a lasciarci alle spalle bensì un tessuto connettivo sulla scorta del quale le comunità in crisi ricontrattano il legame e la coesione sociale al proprio interno. Tanto più quando l’emergenza sembra divenire l’orizzonte di senso comune: emergenza economica, sospensione del valore delle norme di diritto, contrazione del tempo sulla dimensione dispotica di un eterno presente, precarizzazione dei percorsi esistenziali, costituzione e reiterazione di stati di eccezione in ragione dei quali l’individuo vive in una sorta di eterno limbo, in attesa di una qualche decisione a suo favore che da lui non dipende e che – in tutta probabilità – mai nessuno potrà o vorrà assumere.

Scenari da panico

Le società dell’incertezza si nutrono dei razzismi, che costituiscono un’alternativa valoriale, ma anche cognitiva, al defraudamento di significato al quale gli individui vengono quotidianamente sottoposti dalla riduzione della socialità a prodotto di flussi eteroregolati. Poiché i razzismi sono la letterale «messa a valore» della diversità. Di essa, e della sua stigmatizzazione, infatti, si alimenta una lettura del presente al contempo angosciante, panica se non apocalittica ma anche falsamente rassicurante, che traduce la differenza in diffidenza dicendo che alla minaccia del mutamento si può «dare un volto», quello del nemico che alligna nei nostri paraggi. Da questo punto di vista siamo quindi in presenza di un fenomeno di assoluta attualità. Che non può essere affrontato e risolto con il ricorso a pedagogie pubbliche di taglio volontaristico né, tanto meno, rinviando alle esortazioni sul valore in sé della «diversità». Le società dello sfruttamento profittevole della paura sanno peraltro benissimo quanto tale valore sussista, mettendolo all’opera nel momento in cui produce un surplus che premia gli imprenditori politici, sociali e culturali dei razzismi. Verrebbe da dire che l’angoscia è un vero e proprio capitale, con un suo peculiare saggio di remunerazione.
Peraltro, ciò che più e meglio colpisce quanti si trovano in una condizione di tensione sociale, sottoposti alla subordinazione delle circostanze, ai nodi strutturali che non possono governare, ma dai quali sono eterodiretti, non di meno che al rischio del declassamento sociale, non è l’altrui alterità ma il timore che essa sia il veicolo attraverso la quale si produce e si rinnova l’alterazione del proprio status. I razzismi, da questo punto di vista, accostano e coniugano l’urlo di rabbia dell’escluso all’apologia di un ordine costituito, le cui fantasiose virtù sarebbero state messe in discussione dall’intrusione dell’estraneo.
Il tratto comune in tali narrazioni, infatti, è l’ossessione per l’invasione: del proprio spazio, di un territorio comune, di un’identità gelosamente custodita, di un’idea di se stessi che se è la proiezione di costruzioni mentali proprio per questo fatto è intesa come una linea invalicabile, pena l’estinzione della propria individualità. L’angoscia per l’invasione è tanto più pronunciata quanto lo scenario sociale, politico e culturale è caratterizzato dalla volubilità. Dei corpi, delle merci, delle immagini. Da questo punto di vista, il tempo che stiamo vivendo è quanto di più propizio si dia affinché tale condizione si ripeta.
La razzializzazione delle relazioni sociali, la trasformazione dei legami interpersonali in vincoli biologici, la maniacalità sull’identitarismo, che si trasformano nella celebrazione delle comunità come tradizioni ancestrali, piccole patrie immobili, non sono quindi moventi trascorsi bensì concrete risposte culturali e cognitive alla crisi europea. Sono la risposta che chi è obbligatoriamente ancorato ai territori, incatenato agli spazi circoscritti, nel momento in cui le loro mutevoli fortune rendono il suo futuro incerto, cerca di darsi dinanzi ad un sistema di produzione della ricchezza che riposa invece sulla transnazionalità e sulla rottura di qualsiasi barriera. Un paradosso solo apparente riposa in questa condizione, la quale indica che a cercare la soluzione etnica come alternativa all’invisibilità e all’impronunciabilità dei conflitti di posizionamento economico sia non un capitale oramai compiutamente globale ma ampi segmenti di popolazione consegnati al meccanismo della propria marginalità.
Il populismo può facilmente ibridarsi ai razzismi, nel momento in cui dovesse necessitare di nuovi argomenti da contrapporre alla crisi della politica. Di quest’ultima, peraltro, ne costituisce la nuova forma, in un’età di consunzione delle democrazie parlamentari, dei diritti liberali trasformati in licenze liberistiche e di estinzione del compromesso socialdemocratico.
Poiché i razzismi sono anche un costrutto culturale che dà nobiltà, nel senso di concretezza di significato, di vividezza di senso, a quelle dottrine che proprio dall’indistinto del richiamo alla moltitudine, dalla presunta veracità di ciò che appellano «popolo», dalla vocazione salvifica dei processi di distruzione della rappresentanza, dalla cancellazione del conflitto sociale e alla sua trasformazione in scontro tra civiltà, hanno in questi ultimi tre decenni preso un vigore un tempo insperato. Ovviamente i razzismi sono anche altro ma quando ci si interroga sulla traslazione dei pregiudizi, ossia non solo sulla loro persistenza storica ma soprattutto sulla capacità che rivelano di riprodursi e rinnovarsi in situazioni diverse, adattandosi a contesti tra di loro anche differenziati, il cogliere quali siano i punti di sintesi tra presente e passato diventa un obiettivo imprescindibile.
Anche per questa ragione il volume collettaneo, a cura di Alfredo Alietti, Dario Padovan e del sottoscritto su Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immagini e pratiche nella società italiana (Franco Angeli, pp. 196, euro 24), può tornare utile. Il lavoro si articola intorno agli spazi linguistici, rappresentativi e comunicativi del razzismo contemporaneo. Ne sottolinea la natura polimorfa, la sua mutevole morfologia che rimanda alla fantasia collettiva di una dimensione naturalistica di quanto qualifica come differenza etnico-razziale.

Il nemico interno

Ciò facendo, si interroga sui nuovi orizzonti della razzizzazione delle relazioni sociali. L’antisemitismo, che costituisce un modello archetipo, una sorta di calco imprescindibile, si presenta quindi non solo come «il razzismo contro gli ebrei», bensì nella sua peculiare natura di laboratorio e di archivio della stigmatizzazione, della separazione e della distruzione della diversità e della varietà umane. La comprensione delle dinamiche che lo connotano permette di capire quali siano gli ambiti oscuri, ossia meno confessabili, della biopolitica in età liberista. Poiché ancora una volta il pregiudizio, in tutte le sue manifestazioni, si evidenza non come una forma residuale di falsa coscienza bensì come strumento per governare la complessità sociale, attraverso la rilegittimazione sia di autoritarismi così come di forme e pratiche di politiche dell’esclusione, soprattutto laddove i paradigmi del mercato autoregolato e della libertà autoimprenditoriale sono presentati come l’orizzonte esclusivo di senso delle comunità.
Esiste una pluralità di nessi, infatti, tra l’organizzazione e la stratificazione del mercato del lavoro, i sistemi e le ideologie di organizzazione di società in perenne mutamento e la crisi delle sovranità nazionali. Se l’eredità dell’esperienza del Novecento ci ha indotti a ragione sull’artificiosità dei razzismi, laddove essi hanno spesso rivelato la loro natura strumentale rispetto alle politiche di inclusione e di esclusione prodotte dai singoli Stati, ora il confronto assume una configurazione diversa, rapportandosi alla dimensione sovranazionale dei processi di globalizzazione.
In questa chiave, per ciò che concerne le società occidentali, si delinea un pregiudizio contro il mondo islamico, volutamente frainteso come una sorta di entità unitaria e, quindi, in sé minacciosa. Più che rinviare alla conoscenza (o alla non conoscenza) delle sue molteplici e stratificate storie tale atteggiamento riconduce al bisogno di tematizzare, in una sorta di idealizzazione negativa, la presenza di un nemico interno alle società ospiti.
Il nesso tra processi di mobilità e di circolazione delle forze economiche, di cui le migrazioni sono parte integrante, con la trasformazione cognitiva che deriva dal mutamento strutturale che si riflette, senza filtri, sugli individui, nonché l’imputazione di «colpa», attraverso la sua antropomorfizzazione nei panni dell’estraneo, si fa quindi di nuovo denso ed immediato. La qual cosa implica il considerare la modernità dei razzismi, ovvero la loro assoluta attualità. Poiché nell’epoca in cui tutto quel che sembra solido evapora nell’aria, nulla sembra avere maggiore consistenza, e continuità, del pregiudizio.