Lo spettacolo dei quarantamila tifosi di Torino che, nel panico per l’esplosione di petardi, stavano per provocare una catastrofe maggiore di quella provocata dai terroristi islamici a Londra, conferma che siamo i peggiori nemici di noi stessi.

Le reazioni sadiche, delle tifoserie nemiche, favorite dalla fortunata assenza di morti, mettono in risalto la crisi di solidarietà sottostante al compattarsi difensivo contro un persecutore esterno. Danno, al tempo stesso, una soddisfazione surrettizia al desiderio represso di dell’ironia in un mondo mesto in cui si ride, scaricando le tensioni, senza sorridere, sciogliere le riserve, aprendosi dall’interno alla presenza dell’altro.

Dopo la notizia di ciò che è accaduto a Torino, tra i tifosi del Napoli sono circolate due battute. Una dice che l’Isis non aveva motivo di venire in Italia, visto che il danno ce lo possiamo procurare da soli. La seconda, che i terroristi non potevano che essere demotivati dalla paura di essere travolti dalla nostra dabbenaggine, invece che riuscire a travolgerci con la loro violenza.

Pur nell’intento di sdrammatizzare la paura collettiva, cogliendo con la prontezza tipica dei napoletani, il lato comico (o più precisamente tragicomico) della situazione, le due battute configurano due aspetti importanti della questione del terrorismo.

Lo stato di panico latente in cui viviamo, pronto a esplodere anche in assenza di un pericolo concreto, e il fatto, che sfugge al nostro sguardo, che i terroristi vivono nella nostra stessa situazione emotiva, sono soggetti travolti da smottamenti identitari che pensano di sfidare illudendosi di poter diventare agenti, piuttosto che vittime delle forze travolgenti.

I terroristi commettono assassini feroci e disumani che nulla può giustificare. La loro ferocia non ci dispensa, tuttavia, della nostra responsabilità, dell’assoluta necessità di leggere in modo ragionevole e non impulsivo i fenomeni che li hanno prodotti e sostengono la loro azione.

Lo smantellamento persistente dei legami solidali, comunitari, dell’associazionismo, delle identità culturali, degli scambi e la graduale sostituzione della cittadinanza con la “tifoseria” (l’adesione acritica a cause unificanti in modo impersonale) creano un mondo di folle passive che vivono simbioticamente e senza progettualità, pronte a impazzire al primo rumore che le sveglia dal loro sonno.

La pazza folla che cerca la sicurezza come fondamento della sua costituzione, è minata internamente, perché non ci sono legami reali di reciprocità, fondati sul riconoscimento delle particolarità e delle differenze.

Chiunque ne fa parte corre il pericolo di essere pestato da chi li sta vicino a ogni perturbamento dei suoi movimenti. L’intrinseca insicurezza che caratterizza ogni corpo sociale che ha un assetto di chiusura, viene arginata con l’esteriorizzazione del pericolo, così che il cortocircuito interno può agire indisturbato.