Chi si fosse trovato a passeggiare alla Città dell’Altra Economia di Testaccio, a Roma, lo scorso fine settimana avrà certamente notato un folto gruppo di adulti e bambini con i piedi tuffati in alcuni tini ricolmi di fango. O avrà potuto osservare l’«animale mitologico» che è emerso da questo rito tribale: la rana Carla. In realtà la rana Carla è un forno. Costruito con una tecnica ecologica ed economica di origine sudamericana, ha una volta in terra cruda impastata con sabbia, argilla e paglia. I forni pubblici infatti tornano di moda, un altro è in costruzione nel quartiere della Garbatella. 

Ma Carla ha una missione molto speciale, si prepara a ospitare la prima «Festa romana della pasta madre», il prossimo fine settimana 8 e 9 giugno. Si tratta di un evento dedicato in particolare alle centinaia di novizi della panificazione domestica, eppure sostenuto dai più importanti fornai della capitale. I bravi fornai, infatti, invece di indispettirsi sono contenti che la cultura del pane vero si diffonda. È quello che è accaduto anche nel Regno Unito, quando la «Fondazione Sustain» ha lanciato la Real Bread Campaign (www.sustainweb.org/realbread/).

Pagnotta in casa e grani antichi

Ma come mai sempre più persone si fanno il pane in casa? Fondamentalmente perché il pane che si trova in giro dura appena mezza giornata, costa e tende a provocare gonfiore e intolleranze. Se ci siamo ritrovati ad avere un prodotto così scadente e così lontano da quello che i nostri nonni chiamavano «pane», è soprattutto per due ragioni, legate all’industrializzazione.

In primo luogo, le migliaia di varietà di grano, farro, orzo e avena che i contadini avevano selezionato in ogni vallata, altopiano e collina della penisola sono state totalmente messe da parte e sostituite con una o due varietà «più produttive», come il grano tenero Creso.
Abbiamo lasciato nel dimenticatoio migliaia di grani ricchi di sapore e nutrienti per invadere i campi e le tavole con grani come il Creso, basso, tozzo, rigonfio di acqua, che si raccoglie in giugno con le mietitrici, è ancora verde, insipido, e presenta delle macromolecole di glutine mostruose. Questa caratteristica gli permette di incorporare tanta acqua e tanta aria (si vende meglio) e di resistere a pesanti lavorazioni, l’effetto chewing gum insomma. Ma come reagisce il nostro stomaco?

In secondo luogo, il pane che si trova in giro (salvo rarissimi casi), è lievitato per mezzo del lievito di birra. Gli antichi egizi furono i primi fornai della storia, e da allora per circa 10 mila anni chi diceva pane diceva fermentazione (i nomi sono vari: pasta acida, pasta madre, poolish, lievito selvaggio, criscito). Invece, all’inizio del ventesimo secolo è stato scoperto il modo di coltivare il lievito di birra. Ed ecco che negli anni Cinquanta i ceppi di lieviti madre di tutte le case e di tutti i forni d’Italia sono stati magicamente soppiantati da questa sostanza.

In questo modo, il lievito non è stato più coltivato e condiviso, ma è passato a essere «comperato». Il lievito di birra gonfia il pane in tempi brevi, ma non lo trasforma, non «predigerisce» la farina: è un po’ come se mettessimo alcool nel succo d’uva e dicessimo che è vino. L’alchimia della lievitazione naturale, al contrario, liberava, scomponeva i nutrienti regalando al pane una bella gamma aromatica e rendendolo digeribile.
Il risultato è che paghiamo tanto un prodotto che con il pane ha poco a che vedere, e in più le farine sono eccessivamente setacciate (rimane cioè soltanto la parte glutinica e calorica). La farina 00, come fa notare l’oncologo Franco Berrino, dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, è il «veleno» della nostra epoca, all’origine di molte patologie tra le quali celiachia, diabete, obesità, e forma anche un terreno fertile per i tumori.
Ecco che al contrario, acquistando farine biologiche, integrali, particolari, e lievitandole in casa come si deve, riusciamo a farci un pane buonissimo che dura una settimana, al costo di circa 2 euro al chilo.

E dato che il pane è la base dell’alimentazione nel mediterraneo, cambiare il pane cambia la nostra vita gastronomica. Così, nel 2009 è nata a Roma una realtà virale, la «Confraternita dei panificatori domestici», che negli ultimi anni è cresciuta fino a raggiungere circa 400 famiglie. Oltre alla cultura del «pane vero», queste persone conservano una particolare «coltura»: sono diventate custodi di un ceppo di pasta madre tricentenario.
Non solo la Casa del Cibo, ma altre associazioni, come il Movimento per la decrescita felice, si sono dedicate a diffondere «iniziazioni», per permettere a chiunque e compatibilmente con i tempi della vita moderna in appartamento, di riappropriarsi dell’arte della panificazione.

È venuto poi il turno dei contadini. Fino a due anni fa bisognava andare in Toscana per trovare antiche varietà di grano. Oggi tra il Lazio, le Marche e l’Abruzzo, c’è ampia scelta: Senatore cappelli, Saragolla (il Kamut nostrano), Solina (un detto abruzzese recita: «la farina di solina aggiusta tutta la farina»), Gentilrosso, Verna, sono riemersi dalle cantine delle cascine per tornare in campo e in tavola a rallegrare il palato.
Il centro Italia ha visto fiorire nuove aziende agricole che coltivano grani antichi, spesso biologici, per venderli alle famiglie e ai gruppi d’acquisto. È nata, nel padovano, una grande azienda che produce farine quasi esclusivamente per gli appassionati, e tutte macinate a pietra, la Petra. La domanda dei privati cresce, e si sono creati gruppi di acquisto che ordinano quintali di farina in sacchi da 5 o 10 chili: oramai le confezioni da mezzo chilo sottovuoto e care che si trovano nei negozietti bio stanno diventando obsolete.

L’identikit del panificatore domestico

Un panificatore domestico è a tutti gli effetti un soggetto antropologico particolare: si tratta in genere di un «iniziato». Spesso rientra di corsa nel bel mezzo di una serata, perché deve infornare. Quando parte in vacanza si rivolge mesto ai propri confratelli per far custodire la «madre» e sul suo blog affigge un bollino inventato dal gruppo bolognese con su scritto «io spaccio». Invece del vino quando lo inviti a cena ti porta il pane, che per lui è una via di mezzo tra la droga e la religione. Se gli presenti una bella rosetta bianca e soffice, storce il naso, la farina 00 non entra nella sua dispensa, la tratta come fosse calce o polvere di arsenico. Si sente parte di una nuova rete sociale, e anche se abita in una grande metropoli incontra volentieri altri panificatori per prestargli la madre, come si faceva nei piccoli paesi. Infatti si racconta di un eremita abruzzese, un mistico che quando lo andavano a trovare chiedeva notizie del mondo, e per sapere come andasse la società domandava: «Le famiglie si prestano ancora il lievito per il pane?».

La Festa della pasta madre riunisce nutrizionisti, produttori di farine di qualità, fornai storici che detengono il sapere gastronomico e centinaia di panificatori domestici. L’ospite d’onore sarà Nicholas Supiot, un contadino-fornaio francese che viene apposta dalla Bretagna ed è stato promotore di incontri mondiali sul pane assieme per la Via Campesina. Ogni buon appassionato conosce Nicholas attraverso il video «Les Blés d’Or», disponibile sul web. La sua compagna ha sviluppato una pasta madre in grado di lavorare senza glutine con il grano saraceno e vengono assieme ad insegnare i loro segreti a Roma prima di proseguire per l’incontro della Rete europea dei semi rurali, che si terrà a Peccioli (Pisa): Let’s Cultivate Diversity (www.cultivatediversity.org).