C’è una storia che molti amano ripetere in Nagorno-Karabakh. A un giornalista straniero che gli aveva chiesto di quanti soldati potesse disporre, il presidente della piccola repubblica secessionista, Bako Sahakyan, avrebbe risposto: «150.000 persone, tutta la popolazione del mio paese».
In effetti dopo tanti anni la guerra, per gli abitanti di questa regione contesa, è divenuta come una seconda pelle. Non c’è uomo che non abbia combattuto, e tutti quelli che ho incontrato hanno almeno una vittima fra parenti o amici.

Fuori dalla capitale, Stepanakert – tirata a lucido – il paesaggio è segnato da edifici spettrali, abbandonati o in rovina. Lungo il confine con l’Azerbagian, la visione è ancora più agghiacciante: uno dopo l’altro, villaggi e città rasi al suolo sistematicamente, nella terra di nessuno dove si snoda il fronte di questo conflitto senza fine.

Una parvenza di normalità

Eppure, quella che si cerca di costruire giorno dopo giorno è una parvenza di normalità che faccia dimenticare, almeno per un momento, la realtà onnipresente della guerra. E se si guarda a Stepanakert almeno, la cosa sembra a tratti possibile. Qui abitano circa un terzo degli abitanti del Nagorno-Karabakh, ed è facile capire il perché. Se non fosse per la massiccia presenza di militari, il clima di provincia che vi si respira è quello pacato e sonnolento che si incontra in ogni altra parte del mondo.

Distrutta come tanti altri centri abitati della regione, la città è rinata dalle macerie degli anni novanta grazie agli sforzi degli armeni di qui e della diaspora. Se anche qui alcuni edifici mostrano le cicatrici della guerra, la maggioranza è però intatta, e non mancano angoli suggestivi con case su due piani dai balconi in legno che riportano alla memoria un’epoca trascorsa. Un tempo – che sembra lontano anni luce – in cui popoli di diversa etnia, lingua e religione vivevano fianco a fianco in queste terre.

Esplosa in concomitanza con la fine dell’Urss, la guerra del Nagorno-Karabakh ha visto opporsi Armenia e Azerbaigian per il controllo di questa piccola regione. Un territorio montuoso che Stalin in persona aveva deciso di affidare alla Repubblica socialista sovietica azera per rafforzarla e farne un avamposto funzionale all’esportazione della rivoluzione nel mondo musulmano. E questo nonostante storicamente la regione – che era stata teatro di scontri anche prima dell’Unione sovietica – abbia sempre mantenuto una larga maggioranza di popolazione armena.

Nel 1988, dopo decenni di coesistenza pacifica, gli abitanti della regione avanzano la richiesta di unirsi alla Repubblica armena. Ne nasce un conflitto che prosegue fino al 1994, quando un cessate il fuoco sancisce la vittoria armena e la proclamazione di una repubblica del Nagorno-Karabakh, non rico

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nosciuta da alcun paese al mondo. Se non che – passati oltre venti anni da quella data – manca ancora un accordo di pace. Non solo: mese dopo mese, si continua a sparare sul quel confine, e alle 30.000 vittime degli anni della guerra si vanno aggiungendo di continuo nuovi caduti.

L’anno peggiore dalla tregua

Una tensione che non accenna a spegnersi. Nell’ultimo anno si è assistito a una serie di escalation senza precendenti che ha rischiato più volte di far riesplodere questo conflitto che pare sempre più difficile definire «congelato». Ai circa 20 morti dell’agosto 2014 si è aggiunta una ulteriore crisi a novembre, quando un elicottero armeno è stato abbattuto sul confine.

Quest’estate, di nuovo, si sono avuti una decina di morti, e altri ancora fra il 24 e il 26 settembre – fra cui anche dei civili, tre donne armene – a conclusione di un anno che molti considerano il peggiore dalla firma del cessate il fuoco.

Sempre più allarmante anche il crescendo nella violenza retorica, soprattutto da parte dell’Azerbaigian, che considera l’indipendenza de facto della repubblica separatista alla stregua di una vera e propria occupazione, minacciando l’uso della forza per porvi fine. E così, lontano dall’attenzione di tutti, questo conflitto si trascina di anno in anno alla frontiera estrema dell’Europa.

Non solo morti e feriti

Una guerra che ha prodotto non solo morti, ma anche mancanza di libertà e disuguagliaze in entrambi i paesi. A Baku una sola famiglia, quella degli Aliyev, detiene il potere incontrastata dal 1993 ad oggi: un periodo che corrisponde quasi per intero con la storia della giovane repubblica dell’Azerbaigian, nata nel 1991 con la dissoluzione dell’Urss. Un dominio nutrito da ampi giacimenti di gas e petrolio, ma anche di un’immagine del nemico sempre al centro dei proclami di regime. Se da parte armena le cose vanno meglio, non si può tuttavia ignorare come i successi democratici dei primi anni dell’indipendenza si siano arenati in seguito all’emergere di una classe di oligarchi che sta stritolando il paese da un punto di vista socioeconomico.

In entrambi i casi, per giustificare l’ingiustificabile – limitazioni e ingiustizie – si agita lo spettro di un conflitto che viene usato per scongiurare mutamenti interni nei momenti di crisi.

Sbattuti al fronte, un incubo

Intere generazioni sono state segnate da questa guerra, che ha gettato i due paesi nella miseria più nera negli anni novanta. Ma ancora oggi, per molti giovani è un incubo. In Armenia, il servizio militare dura due anni, e dopo un breve periodo di addestramento in molti casi, senza tanti complimenti, si è sbattuti in prima linea.

Visito una base militare in Nagorno-Karabakh nei pressi di Martuni, a pochi chilometri dal fronte. Vi trovo una realtà dura, che parla di privazioni e paure per molti giovani. Si tratta di una base che ospita circa un migliaio di reclute, perlopiù provenienti da Yerevan, addestrate per presidiare la lunga frontiera con l’Azerbaigian. Una guerra di logoramento fisico e psicologico, dove può non capitare nulla per settimane o mesi e poi, quando meno te lo aspetti – nella maggioranza dei casi di notte – arriva il colpo decisivo che spezza una giovane vita. Una granata o un colpo di cecchino che mettono fine a una serie infinita di giorni segnati dal tedio e dall’inquietudine. E gliela leggi negli occhi, a quei giovani soldati, la voglia di andare via, di tornarsene alle loro case e alla loro vite.

Il discrimine è classista

Non a tutti, però, tocca la stessa sorte. Il discrimine è classista, come mi spiegano a Yerevan. Solo chi non ha la raccomandazione giusta finisce a fare la naia in prima linea in Nagorno-Karabakh, e questo riguarda naturalmente soprattutto le famiglie più povere. Misera è la mensa che li aspetta, a cui prendo parte, come sono vecchie le armi che impugnano nelle infinite giornate al fronte: kalashnikov e altri reperti dell’epoca sovietica.

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Militari armeni presso il confine con l’Azerbaigian nel 2006 (foto Ap)

Visito insieme a due ufficiali anche la prima linea. E lo spettacolo che mi si apre è quello di un’altra epoca. A cent’anni dal primo conflitto mondiale, in Europa si combatte ancora oggi una guerra di logoramento nelle trincee. Attorno a queste, filo spinato e lattine di cibo vuote per segnalare eventuali incursioni del nemico durante la notte. E l’avversario è lì, a un centinaio di metri: lo si scorge senza binocolo, di fronte a noi.

Da molti giorni non si spara, mi spiegano i soldati. Non sono mancati però in passato, anche qui, razzi, granate e colpi di mortaio. Mi mostrano il luogo dove uno dei loro, tempo fa, è stato ucciso da un proiettile a causa di un riflesso di sole che ne avrebbe svelato la posizione.

In questa waste land di altri tempi, scorgo anche un pastore tedesco posto a guardia della prima linea, insieme alle reclute.

Il pensiero non può allora che andare all’inverno, quando la terra diviene un misto di ghiaccio e fango, e il freddo può arrivare da queste parti anche a 20 gradi sotto zero. Difficile immaginare che cosa sia una vita del genere per un ragazzo, e non stento a credere ai numerosi casi di suicidi di cui mi raccontano alcuni amici. La noia, l’isolamento e il nonnismo delle caserme fanno il resto.

La soluzione è lontana

Inutile chiedersi quanto tempo ancora possa durare questo conflitto. Una soluzione, ora più che mai, pare lontana dall’orizzonte. Fra il retorico e il patetico, gli appelli alla pace della comunità internazionale cadono da anni nel vuoto. Manca una volontà politica di trovare una soluzione, non solo da parte di Azerbaigian e Armenia, ma anche per quel che riguarda le potenze coinvolte nel processo di pace, Russia e Stati Uniti in primis. Sarebbe allora molto più realistico ammettere che un conflitto come questo fa comodo a tutti. Ai paesi belligeranti – come detto – per giustificare dispotismi e inuguaglianze, e agli attori internazionali per tenere sotto scacco una zona di importanza strategica fondamentale come il Caucaso, ponte naturale fra il Medio Oriente, la Turchia e la Russia. Per non parlare, naturalmente, degli affari legati al traffico d’armi.

Durante i giorni dell’ultima escalation, prendo parte alle celebrazioni dell’indipendenza, il 2 settembre. Resto sorpreso dal basso profilo e dalla mancanza di retorica guerresca: bimbi con le bandierine, soldati che sfilano disarmati, un concerto in piazza a Stepanakert. Niente minacce o proclami.
La guerra, che è il pane quotidiano degli abitanti del Nagorno-Karabakh, non ha neanche più bisogno di simboli di cui nutrirsi.