«Giriamo la notte divorati dal fuoco, consumati dalla vita e dall’ansia di non essere più noi giriamo e giriamo, per la città concentrica giriamo e facciamo questo: guardiamo». Con questo incipit debordante e debordiano (una «traduzione» in prosa contemporanea del noto palindromo magico In girum imus nocte et consumimur igni, ripreso da Guy Debord per intitolare la sua celebre pellicola del ’78), Giuseppe Genna apre la sua ultima fatica letteraria, Reality. Cosa è successo, in libreria per i tipi di Rizzoli (pp. 320, euro 19). Il romanzo – sempre che tale definizione riesca a sintetizzarne la cifra narrativa – è un viaggio nel tempo, nei luoghi e nell’antropologia del lockdown; un diario di bordo – all’incrocio tra auto-fiction e scandaglio del reale – dall’epicentro lombardo del mare magnum pandemico in cui è sprofondato un Paese (e il mondo) intero, nello strenuo tentativo di sondare, elaborare e portare a galla «cosa è successo».

L’IO NARRANTE che conduce la narrazione è chiamato a permeare l’invisibile ovunque del contagio e le sue tracce sfuggenti benché pervasive, e per questo deve appunto ricorrere alla forma del racconto, perché «nella cronaca non c’è mai la verità, e solo distorcendo si dà corpo a una febbre che è vera testimonianza».
Nel tempo. Indietro e avanti, soprattutto indietro quando nel passato «recente e friabile» riecheggia il dramma di Chernobyl, «sentiamo tutti lo zinco sulla lingua, respiriamo con la bocca e l’aria ha il sapore di Fukushima o di Pripjat»; riecheggia la Storia dell’anomalia italiana, «una Repubblica che si è fondata sul lavoro, ma non sul futuro. Una nazione asincrona, come la luce stellare»; riecheggia persino la parabola dell’istituzione spirituale che sembra doversi rivolgere all’epos tragico, nell’immagine di sua Santità che incede solitario nella piazza desolata, simile a Edipo nella Tebe della pestilenza: «non invierò nessun legato, nessun messaggero, vengo io da voi in prima persona. Eccomi»; avanti quando la dimensione sospesa della quarantena sembra squarciare il velo di maya e restituirci una verità sepolta dai ritmi produttivi: «ora che tutto è chiuso, ora che tutto è rivelato».

L’IO NARRANTE attraversa e racconta i corridoi degli ospedali, i reparti di terapia intensiva, i cimiteri, le fabbriche, le case, i locali della «movida», le chiese e le carceri in rivolta, dentro cui si agitano i «dannati, conchiusi in queste abominevoli tinozze, dove il crimine si approfondisce, anziché emendarsi». E dunque Milano, «la pretenziosa», «città in cui eravamo già tutti malati», perché se da una parte Genna sprigiona l’empatia viscerale di chi ci è nato, cresciuto e ne conosce l’essenza più profonda, dall’altra compie una de-mitizzazione di ciò che ha sempre rappresentato e di cui è diventata il culmine (inter)nazionale: la global city che cela dietro la sua avveniristica facciata le brucianti contraddizioni del modello ultra-capitalista, tanto egemone quanto al collasso.
Dall’imprenditore vicentino che interroga la cartomante sulla bontà delle sue operazioni finanziarie allo stilista che ha individuato nel «vestire i morti» il nuovo bacino di business; dai millennial in odore di vaporwave «a cui piace giocare allo sporco, al vecchio» ai podisti diventati «runner» nel centro del mirino mediatico; dai riders che macinano il deserto d’asfalto al ritmo delle app agli «expat» che assaltano i treni in fuga dall’urbe infetta; passando per il «drama in bianco e nero» dell’infermiera immortalata nella posa sfiancante – che «deve suscitare speranza e orgoglio, una meditazione non grave» –, per i corpi delle forze dell’ordine che nell’epoca della sorveglianza algoritmica si trovano a brancolare nel buio di una caccia al pazienze zero tramutatasi in un thriller a reti unificate e infine per il linguaggio affetto – e affettato – da un «piacere suppletivo», inzeppato di acronimi, sigle, numeri e grafici che fanno sentire tutti «tecnici, iniziati».

«GIRIAMO E GIRIAMO», e si torna all’incipit, la cui ulteriore e curiosa connessione è che il famoso palindromo viene citato anche in una vecchia traccia del rapper Kaos One, intitolata proprio Pandemia. Uno dei versi della canzone recita: «non c’è più niente di normale, o è inferno sulla terra o è paradiso artificiale». Parole che forse condensano il senso di questa ultima e incredibile opera di Genna, che è l’impresa di elaborare un immane lutto comune in cui solo uno scrittore del suo calibro poteva cimentarsi, che è lo sforzo di decifrare i cortocircuiti (umani, sociali, culturali ed economici) di un sistema per scongiurare il pericolo di un acritico ritorno alla «normalità», di uno sprofondamento nei meandri della rimozione collettiva. E al contrario, interrogarci davvero, su «cosa è successo».