Stretta nella morsa implacabile della pandemia da un lato e dell’embargo Usa, mai così spietato, dall’altro, Cuba deve difendersi ora anche dalle proteste più intense degli ultimi decenni.

PROTESTE che sono partite domenica da San Antonio de los Baños, una cittadina di 50mila abitanti a sud-ovest dell’Avana, e si sono poi estese in altre città dell’isola, al grido di «Abbasso la dittatura» e «Patria e vita», il titolo di un ormai celebre rap anticomunista contrapposto allo slogan rivoluzionario «Patria o morte». A scendere in piazza, come ha riconosciuto il presidente Miguel Díaz-Canel, sono state, però, persone con motivazioni assai distinte.

«Persone del popolo» provate dalla pandemia – proprio domenica l’isola ha registrato un picco di contagi (circa 7mila) e di decessi (47) – e stanche della carenza di generi alimentari e medicine, delle lunghe file per acquistare prodotti di prima necessità sempre più difficili da reperire. C’erano anche, ha precisato il presidente, «rivoluzionari confusi» sulle vere cause dell’attuale crisi economica, in gran parte riconducibili al tentativo degli Usa di soffocare l’isola con tutti i mezzi possibili. Perché, ha detto il presidente, «i 60 anni della Rivoluzione cubana hanno dato loro molto fastidio, tanto da spingerli ad aumentare le pressioni nei nostri confronti».

I RIVOLUZIONARI presenti in piazza, tuttavia, «hanno manifestato in modo diverso», chiedendo spiegazioni ma «senza smettere di sostenere la rivoluzione». Ed è proprio con loro che il presidente ha voluto parlare, recandosi di persona a San Antonio de los Baños per fornire le spiegazioni richieste sulla «complessità del momento attuale» e sul coraggio e la dignità con cui Cuba vi ha saputo far fronte.

Ma a protestare, ha proseguito Díaz-Canel, c’erano anche e soprattutto gruppi di oppositori generosamente sovvenzionati da Washington, che, sulle reti sociali, preparavano da giorni le proteste, proponendo tutto il ricettario tipico della destra filo-Usa, a cominciare dall’istituzione di corridoi umanitari, come se avessero realmente a cuore il benessere della popolazione cubana.

Un ricettario che il governo ha naturalmente respinto, ricordando come «i concetti di corridoio umanitario e di aiuto umanitario siano associati alle aree di conflitto» e non possano certo essere applicati a un paese come Cuba.

È IN QUESTO QUADRO che il consigliere per la Sicurezza Usa Jake Sullivan ha pensato bene di mettere in guardia il governo cubano da qualunque ricorso alla violenza repressiva nei confronti dei manifestanti, meritandosi l’immediata risposta del ministro degli Esteri Bruno Rodriguez: «gli Usa non hanno alcuna autorità politica e morale per parlare di Cuba». Tanto più che, come ha ribadito Díaz-Canel, se davvero si preoccupassero delle sorti del popolo cubano basterebbe che rimuovessero le 243 misure adottate da Trump. «Con che fondamento legale o morale un governo straniero può applicare una tale politica contro un piccolo paese e per di più in mezzo a situazioni così avverse?».

SENZA CONTARE che, ben diversamente dalla prassi abituale seguita dalle amministrazioni latinoamericane amiche degli Usa in caso di proteste anti-governative – come indicano fin troppo bene gli esempi del Cile e della Colombia -, a Cuba, durante le manifestazioni, non si hanno notizie di morti, né di lesioni oculari, né di un ricorso sproporzionato alla violenza: l’unico ferito confermato è un agente. Ma è a ben altro che sta pensando Washington. Secondo quanto ha riferito il portale russo Avia.pro, gli Usa avrebbero l’intenzione di inviare navi da guerra di fronte alle coste cubane con l’obiettivo – incredibile a dirsi – di evitare interferenze esterne, vale a dire di scongiurare il rischio che il governo cubano riceva assistenza dalla Russia. E questo proprio mentre Mosca si è pronunciata contro qualsiasi «intervento esterno».